Oggi le cose sono (ahinoi!) molto diverse. Non si può più giocare all’aperto per ore, se non in rare eccezioni nelle quali nonni e genitori controllano a vista i bambini; si corre e ci si sporca meno, i bambini hanno spazi più ridotti, per il gioco e per la fantasia. Spesso trascorrono il pomeriggio davanti alla televisione o al videogioco di turno, sgranocchiando patatine e snack vari, accompagnati da fiumi di tè alla pesca o coca-cola. E quando il pasto è pronto (quasi sempre un piatto veloce da mettere in tavola alla svelta), arrivano a tavola un po’ per volta, senza appetito, né voglia di parlare. Mamma-tv li pasce di spot pubblicitari sulle nuove merendine in commercio e sui gameboy più sofisticati fino a quando, senza aver ringraziato, né raccontato, né ascoltato nessuno, si alzano per andare a sdraiarsi ancora una volta sul divano del salotto o a chiudersi in camera, per trascorrere ore davanti al computer. Sembra terrificante, vero?
Certo, il divario fra il nostro modo di essere figli e il loro è davvero mostruoso. L’unica cosa che non è cambiata forse è la frase “stai fermo e mangia!”, che, seppure in modo tacito, viene trasmessa ogni volta che lasciamo un bambino da solo con le sue ore pomeridiane e serali da riempire.
Eppure questa è l’era dell’informazione e della conoscenza: sappiamo che un bambino su tre è in sovrappeso o obeso, che l’11% della popolazione infantile salta la colazione e che circa il 28% non la fa in modo adeguato. Conosciamo le conseguenze delle abitudini alimentari sbagliate e della sedentarietà. Molti di noi si sanno districare abbastanza bene fra etichette e reclames. Insomma viviamo in un’era in cui non è possibile non sapere, non apprendere, non essere informati sui rischi ai quali espone lo stile di vita dei nostri ragazzi.
Innumerevoli iniziative, inoltre, sono state messe in atto dal Ministero della Salute, che si è fatto carico di progetti come Okkio alla Salute, Frutta a Scuola, ecc. Insomma, sembra che il problema della sana alimentazione e degli stili di vita corretti rappresenti un’emergenza nazionale, la soluzione della quale è ritenuta della massima urgenza.
Ma allora, mi chiedo, come mai abbiamo i bambini più grassi d’Europa? E come mai questo dato tende a crescere? Cosa c’è che non va? Quale anello della catena è debole? Lo Stato? La famiglia? La scuola?
Intendiamoci, è cosa ormai nota da tempo che l’obesità ha cause genetiche, culturali, psichiche. Ma sappiamo anche che le cause più frequenti sono legate all’alimentazione troppo abbondante e/o qualitativamente errata, insieme all’aumento di sedentarietà. Il pasto e il movimento di un bambino dovrebbero essere, per così dire, sotto la giurisdizione degli adulti di riferimento. O no?
Facciamo un passo indietro, allora, e chiediamoci dove si è interrotto quel processo educativo che aiutava i ragazzi a scegliere gli alimenti in modo razionale. In effetti, una volta nessuno spiegava ai propri figli perché fosse meglio mangiare la frutta piuttosto che le patatine; così come nessuno spiegava agli adulti il motivo di una dieta variata. Mia nonna non aveva studiato scienze dell’alimentazione, eppure era consapevole del fatto che fosse meglio consumare più legumi e meno carne rossa. Chi glielo aveva insegnato? Tutto era molto naturale ed istintivo.
Ma, ditemi, non vi sembra paradossale che nell’era del nutrizionismo e dell’informazione a portata di chiunque non si abbia più la minima cognizione riguardo all’alimentazione corretta?
A me, francamente, viene un dubbio. Si tratterà davvero di “ignoranza”? Oppure è solo una questione di “rinuncia”? Certo, il problema è alquanto complesso. Non può esserci una sola causa, un solo colpevole. Ma cominciamo ad analizzare i fattori più a portata di mano e di click.
L’industria alimentare, si sa, ha preso la palla al balzo e, com’è sotto gli occhi di tutti, non fa altro che sfornare prodotti di cui decanta le proprietà nutrizionali e preventive nei confronti di questo o quel problema metabolico. Così, sugli scaffali dei supermercati, ne troviamo per tutti i gusti; dai prodotti che fanno dimagrire, a quelli che apportano importanti nutrienti, a quelli che saziano senza ingrassare o che regolano la flora intestinale. E per quanto riguarda l’infanzia? C’è davvero l’imbarazzo della scelta: leggendo i claims sulle confezioni si direbbe che i nostri figli siano quelli meno a rischio di problemi legati all’alimentazione. Abbiamo cereali con aggiunta di calcio e vitamine, biscotti con fibra e miele, bevande ricchissime di vitamine, omogeneizzati di carne e pesce controllati e nutrizionalmente perfetti, latti altamente digeribili ma nutrienti. Ce n’è per tutti i gusti.
La pubblicità, sappiamo anche questo, è l’anima del commercio. Sapete cosa significa letteralmente la parola “slogan”? E’ un’antica parola scozzese che significa “grido di guerra”: un grido capace di segnare la sensibilità di grandi e piccini e di immolare il loro rapporto sull’altere delle leggi di mercato, cioè sacrificarlo senza pietà all’esigenza di “superare la concorrenza”.
La conseguenza disastrosa è la produzione di fattori destabilizzanti, quali il cosiddetto nag factor (fattore assillo), cioè il potere che un bambino condizionato dalla pubblicità e dai suoi slogan esercita sui genitori e sugli altri adulti di riferimento davanti agli scaffali del supermercato. Questo fattore, e ciò che ne consegue, priva il genitore di autorevolezza e sicurezza nel momento in cui, per sfinimento e senso di colpa, cede alle richieste del bambino. D’altra parte da recenti indagini risulta che il 45% delle scelte alimentari di una famiglia viene compiuto dai figli. Ricordiamoci, però, che da che mondo è mondo la “nutrice” di un bambino è sempre stata la madre (nella nostra epoca è giusto che lo sia anche il padre, certo); non si è mai visto un bambino scegliere e alimentare la propria atavica nutrice.
Allora, le cose forse stanno così: da una parte c’è l’informazione “scientifico-divulgativa”, dall’altra l’industria alimentare e la pubblicità e noi stiamo in mezzo. La prima ci “istruisce” su cosa è sano e cosa no, la seconda ci “alletta” con pasti veloci “travestiti” da alimenti nutrizionalmente corretti. In mezzo ci siamo noi e il sostantivo che ho usato prima: “rinuncia”. A cosa abbiamo rinunciato?
Ho pensato a lungo ad una risposta plausibile e mi sono sforzata di guardare la questione da più punti di vista, giungendo però sempre alla solita risposta. In realtà parlo di rinuncia perché credo che il problema del sovrappeso e dell’obesità infantile richieda, più che programmi nazionali di educazione alimentare, l’attenzione “vera” delle famiglie, che non dovrebbe essere un “servizio eccezionale” offerto da genitori, nonni, zii, ecc., ma il normale stato dell’educatore. La rinuncia a cui mi riferisco è, dunque, la rinuncia a quell’attenzione, ovvero all’”accudimento”, dove per accudimento intendo quell’istintiva voglia di guidare, accompagnare, rassicurare con i comportamenti e con il buon esempio. Il mio non è un modo per fomentare i sensi di colpa delle madri lavoratrici, della cui schiera faccio orgogliosamente parte, ma solo una provocazione, un invito a riflettere.
La frase “stai fermo e mangia” dovrebbe essere sostituita da “mangiamo tutti insieme e poi usciamo a fare una passeggiata in bici”. Ma il tempo, si sa, è tiranno. Siamo oberatissimi da una moltitudine di impegni tali da indurci a trasformarci in tassisti e percorrere chilometri per accompagnare i bambini in piscina, mangiando merendine confezionate in macchina, invece di correre o fare un giro in bicicletta con loro; da indurci a consumare cibi pronti e affettati e formaggi per tutta la settimana, piuttosto che impastare una bella pizza insieme. Ma siamo proprio sicuri che accompagnarli in piscina e togliere tempo alla preparazione dei cibi ci faciliti la vita?
Una delle poche pubblicità che guardavo da ragazzina sfoggiava uno slogan affatto somigliante a un grido di guerra. Diceva: “meditate, gente, meditate”!