Le parole hanno sempre significati profondi, al di là di quelli più evidenti e nel loro tramandarsi, modificarsi e significare c’è qualcosa di segreto, quasi magico, che le rende preziose ed insostituibili.
È suggestivo leggere, ad esempio, dalle note di C. Darwin che molte lingue indicano il cibo e la bocca con fonemi simili ed assonanti a quelli che rappresentano la mamma; interessante, scoprire che l’evoluzione fonetica e fonologica intorno ai temi del cibo e dell’accudimento ha spesso radici comuni, dalle quali si possono cogliere spunti per riflessioni modernissime.
Ci penso ogni volta che mi trovo a lavorare con i bambini, concludendo, inevitabilmente, che è la capacità di stare con gli altri a modellare il nostro cervello e quindi il nostro linguaggio e il nostro comportamento. Compresi quelli alimentari. Che questa capacità ha radici profonde e segue tracce antiche, dalla nascita all’età del tramonto.
Il linguaggio, le parole e i comportamenti riferiti al cibo e in principio legati al bisogno, oggi trovano collocazioni differenti, si caratterizzano con intensità e tipologie variegate e si legano a spinte diverse da quelle puramente evolutive.
Ma, a fronte della maggiore capacità cognitiva, della massima espansione cerebrale e dell’apice indiscusso al quale è giunta la nostra intelligenza, paradossalmente ci sfugge, spesso non cogliendone l’attimo, una meravigliosa ovvietà: l’essere umano che, rispetto a tutte le altre specie, ha il cervello più complesso e la socialità più elevata necessita di un periodo di dipendenza postnatale più prolungato che prevede, ineluttabilmente, l’accudimento da parte della madre. È in questa finestra spazio-temporale che i suoni e i gesti acquistano significato e diventano “linguaggio” e comunicazione. Come per gli antichi alle prese con i primi doni di Madre Terra, con i primi semi, con i primi far.