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Riabilitazione nutrizionale nei disturbi alimentari infantili: chi detta il ritmo di marcia?

Quando un bambino piccolo smette di mangiare o riduce drasticamente la gamma di alimenti quotidiani, i genitori giustamente si preoccupano della sua crescita e della sua salute. Nei casi in cui non si tratti di una neofobia o di un disagio transitori, è necessario approfondire il fenomeno rivolgendosi a professionisti in grado di farlo.
Nel mio studio arrivano spesso bambini con scarso appetito e con alimentazione selettiva, inviati dai pediatri o per iniziativa spontanea dei genitori. Come altre volte ho precisato, per fortuna non si tratta sempre di disturbi alimentari e spesso il problema si risolve in modo spontaneo e rapido. Quando invece il disagio persiste, è necessario ricorrere alla riabilitazione nutrizionale che ha fondamentalmente due scopi: 1) recuperare un rapporto sereno con il cibo; 2) ripristinare un’alimentazione adeguata che garantisca la copertura dei fabbisogni nutrizionali e la crescita in buona salute. Per procedere sono necessari un’attenta e profonda anamnesi nutrizionale e clinica, la valutazione dei dati antropometrici attuali e pregressi del bambino, del rischio nutrizionale, del comportamento alimentare del piccolo e di tutti gli altri componenti della famiglia. A volte diventa imprescindibile la consultazione di altri professionisti (logopedista, otorino, neuropsichiatra infantile, psicoterapeuta, terapista occupazionale). Il percorso può non rivelarsi lineare, rapido e semplice come tutti ci auguriamo. E, sembra ovvio ma in pratica non lo è quasi mai, a dettare il ritmo di marcia è proprio il bambino, con le sue risposte, i suoi progressivi adattamenti, le sue paure e le sue naturali abilità.
Cosciente del livello di frustrazione e preoccupazione dei genitori, ho l’abitudine di comunicare subito, al primo colloquio, che la complessità e la durata di questi percorsi sono imprevedibili a priori. E’ necessario comprendere infatti che, quando per un bambino piccolo il cibo diventa un nemico da cui difendersi e motivo di disagio profondo, il percorso di riabilitazione nutrizionale non può limitarsi a una mera prescrizione dietetica e, cosa importantissima, deve tener conto dell’individualità: ogni bambino ha il suo passato, le sue esperienze, il suo stato di salute, la sua genetica, i suoi genitori, le sue relazioni. A volte dico alle mamme e ai papà che bisogna andare a riprendere il loro bambino là dove ha interrotto la sua relazione pacifica e naturale con il cibo: tornare indietro, anche fino allo svezzamento, o ancora prima, alle primissime esperienze sensoriali, per ricostruire, rassicurare, lasciarlo sperimentare, manipolare, gustare. Fino a raggiungere quel grado di esperienza, fiducia e gratificazione che ogni essere umano costruisce intorno all’alimentazione durante la propria crescita.
Non è facile spiegare a priori in cosa consiste un percorso del genere, per il semplice motivo che non ne esiste uno uguale all’altro. Ci sono bambini che necessitano di innumerevoli assaggi prima di fidarsi di un certo sapore o dell’aspetto di quel dato alimento. Altri, invece, hanno difficoltà con le tessiture dei vari cibi: per cui si procede con la manipolazione e l’integrazione dei vari sensi che concorrono a formare il gusto e l’accettazione. Pertanto, a ogni bambino il suo percorso. Così come a ogni genitore la sua “cassetta degli attrezzi” di educazione alimentare con la quale imparare a gestire i momenti difficili e a procedere per piccoli passi e obiettivi raggiungibili. Imprescindibile, la fiducia nelle abilità del piccolo che, con i suoi tempi e i suoi modi, troverà la strada per svilupparne di nuove e più complete.
Diventare grandi è un’avventura imprevedibile!

 

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Che cos’è l’ARFIDF, cioè Disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione del cibo? 

Informazioni su ARFID (Avoidant-Restrictive Food Intake Disorder)

  • E’ il secondo disturbo alimentare più comune nei bambini di età pari o inferiore a 12 anni.
  • Può essere diagnosticato in bambini, adolescenti e adulti.
  • Le persone con ARFID sono ad alto rischio per altri disturbi psichiatrici, in particolare l’ansia, depressione, e disturbi del comportamento alimentare (soprattutto, anoressia).
  • Il 20% delle persone con ARFID è di sesso maschile.

 

 

Sintomi

  • Alimentazione monotona e o disordinata caratterizzata da mancanza di interesse per il cibo, estrema selettività, ansia e paure per le conseguenze negative dell’alimentazione (ad es. vomito, soffocamento, reazione allergica).
  • L’alimentazione selettiva non è dovuta alla mancanza di risorse disponibili, né a un pervicace controllo del peso e delle forme corporee (come accade nell’anoressia).
  • Può essere accompagnato da:
    • significativa perdita di peso o mancato aumento di peso e altezza
    • carenza nutrizionale (ad es. anemia sideropenica, carenza vitaminica, ecc.).
    • alterazione del funzionamento psicosociale (poca propensione alle amicizie e alla serena condivisione dei momenti conviviali).

Quando sospettare un ARFID?

  • Assunzione limitata o ridotta accompagnata da malessere generale (mal di pancia, mal di testa, problemi gastrointestinali vari).
  • Mancanza di appetito o interesse per il cibo.
  • Paura di soffocamento o vomito.
  • Incapacità o riluttanza a mangiare davanti agli altri (ad es. a scuola, a casa di un amico, al ristorante).
  • Neofobia non risolta in età scolare.
  • Progressiva riduzione della gamma di cibi accettati.

Conseguenze sulla salute

  • Problemi di crescita sia in peso che in altezza.
  • Malnutrizione per difetto con conseguenti affaticamento, debolezza, unghie fragili, perdita di capelli o capelli secchi, difficoltà di concentrazione e riduzione della densità ossea.
  • Perdita di peso o sottopeso grave.
  • Esposizione ad altre patologie.

Domande più frequenti

  • Si può trattare? Sì, esistono dei protocolli di trattamento basati sulla desensibilizzazione sensoriale, il ripristino della copertura dei fabbisogni nutrizionali e l’educazione alimentare rivolta sia al bambino che alla famiglia.
  • Ci sono patologie che possono esporre più frequentemente all’ARFID? E’ stato visto che i bambini con autismo mostrano una maggiore frequenza di selettività alimentare. Ma ARFID può manifestarsi anche in pazienti con sviluppo tipico che hanno subito piccoli traumi in tenerissima età (vomito frequente, sondino naso-gastrico, o altro).
  • Quali sono i professionisti più adeguati al trattamento di ARFID)? È opportuno ce il paziente sia valutato da un medico (pediatra, neupsichiatra, altro specialista) perché formuli una diagnosi esatta. Sarà compito del nutrizionista provvedere alla riabilitazione nutrizionale e all’educazione alimentare. Rispetto alla desensibilizzazione sensoriale è opportuno affidarsi a personale appositamente formato da cui i genitori possono apprendere gli strumenti necessari a gestire autonomamente il problema. L’importante è affidarsi a professionisti che conoscono questo disturbo alimentare e che hanno strumenti per trattarlo.

(Per informazioni e appuntamenti scrivere a giusi.durso@libero.it, o telefonare al 347 0912780).

Riferimenti bibliografici

Nicely, T., Lane-Loney, S., Masciulli, E., Hollenbbeak, C., & Ornstein, R. (2014). Prevalence and characteristics of avoidant/restrictive food intake disorder in a cohort of young patients in day treatment for eating disorders. Journal of Eating Disorders, 2. Doi: 10.1186/s40337-014-0021-3.

Nicholls, D., Lynn, R., & Viner, R. (2011). Childhood eating disorders: British national surveillance study. The British Journal of Psychiatry, 198, 295-301.

Norris, M., Robinson, A., Obeid, N., ,Harrison, M., Spettigue, W., & Henderson, K. (2014). Exploring avoidant/restrictive food intake disorder in eating disorder patients: A descriptive study. International Journal of Eating Disorders, 47, 495-499.

Ornstein, R., Rosen, D., Mammel, K., Callahan, T., Forman, S., Jay, M., et al. (2013). Distribution of eating disorders in children and adolescents using the proposed DSM-5 criteria for feeding and eating disorders. Journal of Adolescent Health, 53, 303-305.

Zucker, N., Copeland, W., Franz, L., Carpenter, K., Keeling, L., Angold, A., et al. (2015). Psychological and psychosocial impairment in preschoolers with selective eating. Pediatrics, 136, 1-9

Per ulteriori informazioni, si possono consultare i seguenti siti:

https://www.ipsico.it/news/arfid-restrizione-evitamento-cibo-bambini/

https://www.istitutobeck.com/disturbo-evitante-restrittivo-assunzione-cibo

https://www.unabreccianelmuro.org/interventi-sulla-selettivita-alimentare/

https://www.aidap.org/2017/che-cose-il-disturbo-evitanterestrittivo-dellassunzione-del-cibo-arfid/

https://keltyeatingdisorders.ca/wp-content/uploads/2017/04/ARFID_NEDA.pdf

 

 

 

 

Immagini di Giusi D’Urso

 

Uno mangia troppo e l’altro poco… che fare?

 

 

Non è affatto inusuale, per chi si occupa di nutrizione pediatrica, incontrare famiglie in cui uno dei figli mangia molto e l’altro invece è inappetente. Un dilemma che dal punto di vista pratico e organizzativo mette la famiglia in grande difficoltà, perché è chiamata a gestire due situazioni non solo molto diverse fra loro, ma assolutamente opposte.
Come fare, infatti, a contenere l’appetito sfrenato di un figlio, se il fratellino mostra indifferenza pressoché assoluta nei confronti di molti, se non di tutti, gli alimenti?
Può essere valida la regola del divieto per uno e della facilitazione, sempre e in ogni caso, per l’altro? In poche parole, si può limitare a uno l’accesso a una dispensa piena di ogni leccornia e succulento manicaretto preparati per stuzzicare l’interesse e l’appetito dell’altro?

Il piccolo “ingurgitatore”…

Il problema è complesso e merita una riflessione attenta. I bambini cosiddetti “ingurgitatori” mostrano spesso una sorta di compulsività che li porta, soprattutto durante le ore pomeridiane che trascorrono a casa, alla continua ricerca di cibo consolatorio, cioè ricco di grassi e zuccheri, che hanno l’effetto di gratificare il palato nell’immediato, spesso senza nutrire a sufficienza.
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Rifiuto del cibo e patologie metaboliche: un caso in corso.

molecola-del-fruttosio-40168389Recentemente è arrivata alla mia osservazione Rebecca (nome di fantasia): una bambina con intolleranza al fruttosio o fruttosemia. Si tratta di una patologia genetica, autosomica recessiva, caratterizzata dall’assenza dell’enzima fruttosio-1- fosfato aldolasi deputato alla metabolizzazione del fruttosio. Questo zucchero quindi tende ad accumularsi nel sangue e a provocare danni epatici, renali e metabolici. La malattia può manifestarsi già nella primissima infanzia con vomito, rifiuto del cibo e ipoglicemia. In assenza di una diagnosi precoce e della dieta deprivata di fruttosio, la situazione può essere così grave da arrecare danno epatico e renale e rendere necessario il ricovero in ospedale.
Rebecca ha poco più di due anni e di ricoveri ne ha già subiti diversi. Finalmente adesso la sua patologia è stata individuata e diagnosticata con precisione, pertanto la bambina sta seguendo una dieta completamente priva di fruttosio, saccarosio e sorbitolo. La difficoltà di strutturare e seguire un piano alimentare siffatto è rappresentata soprattutto dalla presenza di fruttosio nascosto in molti alimenti industriali. Pertanto è consigliabile utilizzare cibi che naturalmente non lo contengono. Inoltre, è importante lavorare sulla salute del suo intestino e sulla regolarità dei suoi assorbimenti, attraverso l’utilizzo di probiotici esenti da fruttosio (la cui ricerca è risultata davvero ardua!). Un altro aspetto fondamentale è l’integrazione vitaminica, attraverso prodotti di integrazione adeguati.
La gestione di una dieta deprivata di fruttosio in una bambina così piccola è molto complessa e faticosa, anche perché, a causa dei continui sintomi e dei conseguenti ricoveri, Rebecca ha sviluppato una reazione repulsiva verso il cibo e il momento del pasto in generale. Tale repulsione, inoltre, si sovrappone alla neofobia fisiologica che ogni bambino sperimenta fra il primo e terzo anno di vita. Le reazioni più comuni  di Rebecca attualmente sono il pianto, la stizza, la fuga e l’allontanamento dalla tavola apparecchiata, la tendenza a piluccare e l’estrema selettività. La crescita della bambina, al momento, è regolare e questo ci concede il tempo di instaurare con calma un buon rapporto empatico e strutturare un percorso adeguato.
Rebecca attualmente rifiuta anche alimenti proteici naturalmente privi di fruttosio quali la carne, l’uovo e il formaggio e il pesce che, in questa fase della crescita e in presenza di un regime alimentare così ristretto, assumono un’importanza fondamentale. Il lavoro con Rebecca è appena iniziato e fondamentalmente riguarda la sensorialità e le reazioni di diffidenza: stiamo imparando a conoscere il cibo e ad accettare la convivialità attraverso colori, reazioni tattili e l’uso di video appropriati. Il secondo step riguarderà la sperimentazione dei cibi da introdurre fra i suoi consumi in forma adeguata: in questo passaggio sarà fondamentale la collaborazione dei genitori nella preparazione dei pasti e nella condivisione familiare, serena e paziente.

 

 

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Mamma, voglio fare la dieta!

Accade spesso, sempre più di frequente, che i figli adolescenti o ancora più piccoli, comunichino con determinazione la loro decisione di mettersi a dieta. Si informano, soprattutto in rete, riguardo a cosa sarebbe bene mangiare e cosa no per stare in forma, aumentare la muscolatura, ridurre la circonferenza della vita, quella delle cosce, quella dei fianchi. Si confrontano freneticamente sui loro gruppi whatsapp sulla dieta senza grassi, quella senza dietadolci, quell’altra senza carne, senza pasta e senza glutine. Cominciano a dare direttive su cosa mettere a tavola a chi in famiglia si occupa della spesa e a chi di preparare i pasti. E in men che non si dica, il pasto diventa un vero problema: questo non si può, questo non lo vuole più neanche annusare, quest’altro gli piaceva tanto ma adesso lo ha escluso.
Cosa spinge i nostri ragazzi a decidere di privarsi di uno o più alimenti, innescando ansie e preoccupazioni? I motivi possono essere tanti e vari. I modelli estetici con cui i giovanissimi si confrontano quotidianamente sono tendenzialmente fuorvianti: modelle magrissime, personaggi dello spettacolo e dello sport palestrati e prestanti. Potremmo fare un elenco lunghissimo, basterebbe accendere per qualche minuto la tv o navigare fra i siti più cliccati dai ragazzi.
A volte, la sollecitazione a restringere il consumo alimentare nasce dall’imbarazzo davanti al gruppo dei pari che esibisce comportamenti e modelli distanti dalla realtà e che ne fa le chiavi d’accesso al gruppo stesso; oppure dopo un commento troppo pesante riguardo alle forme corporee. Altre volte, può accadere che i genitori siano molto attenti alla forma fisica e che quindi a casa si respiri, volenti o nolenti, aria di “dieta”, che in altre fasi della vita dei figli non sortirebbe alcun effetto. Nella mia esperienza professionale mi capita spesso di ascoltare genitori sopraffatti dai sensi di colpa per il timore che la loro attenzione all’alimentazione sana o una loro scelta alimentare un po’ drastica possano aver influenzato negativamente il proprio figlio o la propria figlia. A questi genitori dico sempre, col cuore in mano, che fare la mamma e il papà è davvero difficile e faticoso e che non devono sentirsi sotto giudizio, né lasciarsi schiacciare dai sensi di colpa, ma che, al contrario, sono stati bravi e attenti a individuare atteggiamenti potenzialmente pericolosi e chiedere aiuto.
Quando è davvero il caso di preoccuparsi al suono della frase “mamma, voglio fare la dieta”?
È bene non drammatizzare e attendere qualche tempo, restando in ascolto e osservando il proprio figlio o la propria figlia: questa scelta potrebbe essere (spesso lo è) momentanea e quindi passeggera. Se l’intervallo di tempo si riduce a qualche settimana, possiamo rilassarci e, senza dimenticare quanto è accaduto, riporre l’ascia di guerra. Se, al contrario, il periodo di restrizione si protrae oltre (mesi), con la tendenza a restringere sempre di più, ad evitare sempre nuovi alimenti e si manifesta con pensieri che diventano ossessivi, o con ansia e angoscia rispetto al cibo e all’atto del mangiare, allora è bene rivolgersi a un esperto, per valutare sia l’aspetto nutrizionale che quello comportamentale. Ricordiamo che nell’infanzia e nell’adolescenza ai fabbisogni nutrizionali di base è necessario aggiungere una quota di energia e nutrienti che supportino la crescita. È facile quindi immaginare come una riduzione calorica importante e prolungata nel tempo possa danneggiare il processo evolutivo, anche in modo importante. La diffidenza e il rifiuto nei confronti del cibo, della condivisione e del tempo trascorso a tavola, se prolungati logorano le relazioni e gli equilibri familiari, innescando paure e pensieri angosciosi ridondDSCN6597anti da cui poi è difficile disimpegnarsi.
Non dimentichiamo, infine, che siamo davanti a una trasformazione profonda e preziosa: il bambino che abbiamo guidato fino a questo momento sta per diventare un adulto, abbandonando vecchi schemi e antiche dipendenze, recuperando autonomia e identità e un’individualità nella quale spesso noi adulti stenteremo a intravedere il cucciolo che abbiamo messo al mondo e che conoscevamo così bene. In questo contesto così dinamico, il cibo rappresenta, e rappresenterà ancora per un po’, un veicolo di messaggi in codice, simbologie ricche e complesse. Sta a noi adulti decifrane i significati, arricchircene a nostra volta e accompagnare il nostro adulto in erba verso ciò che diventerà da grande.

 

 

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Cibo e metabolismo spiegati ai bambini

Una interessante revisione pubblicata di recente su American Society of Nutrition sottolinea che, a fronte di una cospicua mole di lavori scientifici sul comportamento alimentare degli adulti,  non vi è pari produzione riguardo al comportamento alimentare dei bambini e degli adolescenti. E’ strano, a pensarci bene, vista l’importanza e l’urgenza di fare proprio nelle prime fasi della vita un’efficace prevenzione dell’obesità e di altre patologie, metaboliche e non, attraverso una corretta alimentazione.
In tutta franchezza, per quanto sia auspicabile che la ricerca fornisca al riguardo quanti più dati possibile, credo che la scienza sia già in grado di fornire delle indicazioni sufficientemente precise e accurate per poter effettuare, a largo spettro, politiche alimentari virtuose. Intanto, senza la pretesa di estendere metodiche ambulatoriali a popolazioni numerose, una delle cose che chi ha il privilegio di lavorare anche con bambini e adolescenti potrebbe e dovrebbe fare è fornire più strumenti possibile ai piccoli pazienti e alle loro famiglie.
DSCN6199Concetti come l’impatto glicemico di un alimento, la combinazione corretta dei cibi che compongono un pasto, il ruolo della fibra sul microbiota intestinale, la regolazione dell’appetito e della sazietà, le conseguenze dello stress sul metabolismo rappresentano, una volta acquisiti, strumenti preziosi di autoregolazione e di scelta consapevole. Ovviamente, è d’obbligo l’attenzione alle modalità con cui questi vengono proposti, la quale deve tener conto di molteplici fattori, quali l’età del bambino, la problematica che lo ha condotto nel nostro studio, la possibilità di collaborazione coi genitori, il possibile inserimento dell’individuo in un gruppo e molto altro ancora: tutte cose che saranno evidente dopo un’attenta e dettagliata anamnesi e successiva meticolosa analisi del caso.
Un’altra occasione per fornire questo tipo di supporto è fornita dall’educazione alimentare  a scuola: nel gruppo classe, infatti, i bambini e i ragazzi sono particolarmente ben disposti all’acquisizione di nuove conoscenze, soprattutto se affrontate in modo pratico ed esperienziale. ed. alim.
In generale, dunque, ritengo importante e irrinunciabile che i percorsi di riabilitazione nutrizionale destinati a bambini e adolescenti non si limitino soltanto alla mera indicazione di scelte alimentari consone e agli abituali controlli del peso e della composizione corporea, ma mirino a fornire coscienza delle modificazioni comportamentali e dei risultati che con esse arriveranno.
A dirla tutta, è una modalità con cui cerco di costruire tutti i percorsi nutrizionali, certa che la bontà e l’efficacia di un percorso, a chiunque esso sia destinato, siano il risultato non solo della competenza e dell’attenzione, ma anche della capacità di rendere fruibile concetti articolati e complessi come quelli relativi a cibo e salute. Non c’è nulla che non possa tradursi in linguaggio accessibile: l’importante è possedere l’elasticità, la creatività e l’empatia necessari una buona e corretta comunicazione.

Review citata: http://pubmedcentralcanada.ca/pmcc/articles/PMC4717882/pdf/an009357.pdf

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L’epigenetica e l’obesità infantile. Capire per agire.

Immagine tratta dalla rete

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IOM (Institute of Medicine). 2015

Negli ultimi anni lo studio dell’epigenetica, cioè dei cambiamenti dell’espressione dei geni in seguito a stimoli ambientali, ha chiarito molti aspetti dei meccanismi legati all’espressione genica. Oggi sappiamo che in natura tutti gli organismi viventi ricevono stimoli dall’ambiente e che questi possono cambiare il modo in cui i geni si “accendono” o si “spengono”.
Nonostante il cammino della scienza sia ancora lungo, lo studio dei meccanismi epigenetici sta già rispondendo a molte domande che i ricercatori si ponevano da tempo. Le più importanti riguardano forse lo sviluppo di malattie metaboliche: come può l’ambiente influenzare l’insorgenza di queste patologie? Quanto è importante questa influenza esterna sull’espressione dei geni che condizionano il nostro comportamento alimentare e il nostro metabolismo?
Da vari studi, recenti e non, è noto che il rischio di obesità è influenzato dalla relazione dinamica fra l’ambiente, la genetica e le prime fasi di sviluppo del bambino. In particolare, a destare preoccupazione è l’obesità infantile con le sue conseguenze a breve e lungo termine, viste le dimensioni e la diffusione del fenomeno e il relativo aumento della spesa sanitaria.
L’analisi delle relazioni fra epigenetica e sviluppo di obesità è ancora in corso, ma esaminare queste prime idee iniziali, su cosa e come si può cambiare, potrebbe condurre a nuove soluzioni per la prevenzione dell’obesità infantile.
Uno degli studi epidemiologici più importanti al riguardo è quello relativo alla carestia olandese del 1944, seguita dall’aumento del rischio di obesità, ipertensione, diabete tipo II e addirittura disturbi psicopatologici come schizofrenia e depressione, nei discendenti. I meccanismi con cui questo aumentato rischio era trasmesso erano meccanismi epigenetici: nei feti esposti alla restrizione calorica materna, rispetto ai nati nei periodi precedenti o seguenti la carestia, c’era quindi una maggiore incidenza delle suddette patologie. Questo fenomeno è stato interpretato come un meccanismo ad alto significato evolutivo: l’organismo in formazione registra le caratteristiche dell’ambiente in cui crescerà e si adatta, a costo di ammalarsi in seguito con maggiore probabilità. Dunque, l’epigenetica ha un’influenza importante sulle origini dell’obesità, dallo sviluppo fetale ai primissimi anni di vita.
Alcuni gruppi di ricerca si sono concentrati in modo specifico sulla nutrizione materna e paterna. Studi su topi geneticamente identici esposti in utero a diete materne differenti mostrano che si possono sviluppare fenotipi molto diversi, includendo differenti pesi e differenti conformazioni fisiche. In particolare, topi che dovrebbero normalmente essere obesi acquisiscono un fenotipo magro se la loro madre è esposta a una dieta fortificata con colina, acido folico e vitamina B12, che influenzano la metilazione del DNA in un locus genetico particolare. Analogamente, in vari modelli animali, diete ad alto tenore di grasso durante la gestazione risultano associate a diverse espressioni geniche relative al metabolismo lipidico, a quello glucidico, alla regolazione dell’appetito. Questa espressione genetica alterata può influenzare il metabolismo lipidico e carboidratico della prole, con influenze sul fenotipo delle generazioni successive. Alcuni di questi effetti possono essere mitigati se la nutrizione post natale è correttamente bilanciata e, in particolare, se ha una adeguata composizione lipidica.
L’alimentazione materna durante la gestazione influenza anche il microbiota* della madre e dei suoi figli. In uno studio giapponese sui macachi, ad esempio, madri alimentate con tipica dieta occidentale, ricca di grassi animali, subiscono una traslazione verso specie del microbiota che influenzano il metabolismo lipidico e attivano meccanismi pro infiammatori. Questa modificazione si registra anche nella prole.
Alcuni studi sostengono inoltre che anche l’alimentazione paterna abbia un ruolo importante, poiché modificazioni epigenetiche sembrano agire sulle caratteristiche dello spermatozoo che fertilizza l’oocita. Nei ratti, ad esempio, una dieta paterna ad alto tenore di grassi provocava una disfunzione delle beta cellule pancreatiche nelle femmine della prole. Anche l’obesità paterna sembra influenzare la salute metabolica a riproduttiva della prole per molte generazioni. È chiaro, dunque, che l’alimentazione dei genitori può rappresentare un fattore epigenetico di grande impatto sul fenotipo comportamentale e metabolico della prole.
Questa mole di conoscenze, ancora in via di approfondimento e sviluppo, può contribuire ad approntare, in modo mirato ed efficace, progetti di prevenzione dell’obesità infantile, attraverso programmi di informazione e sensibilizzazione a partire dai percorsi di accompagnamento alla nascita, passando per quelli di supporto all’allattamento naturale e procedendo con l’educazione alimentare in età scolare e nell’adolescenza.

 

Note 

*la comunità di organismi unicellulari che vive in stretta associazione con il nostro organismo.

LA seconda immagine è tratta da IOM (Institute of Medicine). 2015. Examining a developmental approach to childhood obe- sity: The fetal and early childhood years: Workshop summary. Washington, DC: The National Academies Press.

Riferimenti e approfondimenti:

Joss-Moore LA et al. 2015. Epigenetic contributions to the developmental origins of adult lung disease. Biochem Cell Biol;93:119-27.

Lane RH. Fetal programming, epigenetics, and adult onset disease. Clin Perinatol 2014;41:815-31.

Majnik AV, Lane RH. 2015. The relationship between early-life environment, the epigenome and the microbiota. Epigenomics;7:1173-84.

Dobbs, D. 2013. The social life of genes. Pacific Standard, September 3.

Lillycrop, K. A., and G. C. Burdge. 2011. Epigenetic changes in early life and future risk of obesity. International Journal of Obesity 35(1):72-83.

Peterson J. Et al. 2009. The NIH human microbiome project. Genome Research 19(12):2317-2323.

Friedman J. E. 2015. Obesity and gestational diabetes mellitus pathways for programming in mouse, monkey, and man—where do we go next? The 2014 Norbert Freinkel Award lecture. Diabetes Care 38(8):1402-1411.

Kumar H. et al. 2014. Gut microbiota as an epigenetic regulator: Pilot study based on whole-genome methylation analysis. MBio 5(6): e02113-e02114.

Lane M. et al. 2015. Peri-conception parental obesity, reproductive health, and transgenerational impacts. Trends in Endocri- nology and Metabolism 26(2):84-90.

 

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Obesità infantile: l’importanza del lavoro integrato

Grafico 1

L’esperienza del trattamento nutrizionale dei bambini obesi o in sovrappeso è davvero molto interessante e, nonostante i numerosi anni di professione, continua a offrirmi nuovi spunti di approfondimento e riflessione. Accade, seguendo questi bambini, che la pratica del nutrizionista debba orientarsi verso tutti i componenti della famiglia, poiché il sovrappeso di un individuo non è, e non può essere, un problema esclusivamente individuale se egli fa parte di un piccola comunità integrata e dinamica come la famiglia. Esso, probabilmente, oltre che di una componente genetica, rappresenta il risultato complessivo di una serie di pratiche poco adeguate che hanno coinvolto e coinvolgono ancora l’intero sistema famiglia. Parlo di abitudini quotidiane inadeguate e della conseguente destrutturazione dello schema alimentare, dalle pratiche di divezzamento a quelle di accudimento a tavola in generale, dalla lista della spesa alle consuetudini in cucina.
Questo è il motivo per cui nel trattamento nutrizionale di un bambino obeso è compreso un lavoro imprescindibile con gli altri componenti della famiglia, oltre a figure che possiamo definire collaterali: fratelli, sorelle, genitori, nonni, baby sitter e altri soggetti che si occupano dell’accudimento del bambino in questione. Nel caso in cui il bambino faccia un’attività fisica oltre a quella scolastica (sarebbe auspicabile!), anche l’istruttore o l’allenatore dovrebbero essere coinvolti prima possibile e invitati a collaborare al percorso di riabilitazione nutrizionale e motivazionale, teso a raggiungere il peso adeguato del bambino attraverso l’acquisizione di strumenti di autoregolazione delle proprie emozioni, una maggiore autonomia nelle scelte alimentari, l’educazione agli assaggi e alle varie esperienze sensoriali che ne conseguono.
Poiché gli adulti che hanno un maggiore impatto sui comportamenti alimentari del bambino sono in genere i genitori, come indica chiaramente gran parte della letteratura scientifica disponibile, è con loro che spesso organizzo incontri e seminari, intercalati agli appuntamenti con il bambino. Quindi, in definitiva, il percorso di riabilitazione nutrizionale di un bambino obeso si basa su almeno due tipi di intervento (esperienziale e ludico col bambino, discorsivo e di approfondimento con i genitori)  tesi a fornire strumenti accessibili e concreti atti all’acquisizione di buona pratiche alimentari. Nei casi in cui la componente psico-emotiva, che fisiologicamente gioca di per sé un ruolo importantissimo nella gestione del comportamento alimentare, fosse così complessa e presente da rendere il percorso nutrizionale più difficoltoso del previsto, la collaborazione con altre figure professionali (psicoterapeuta, pedagogista clinico, neuropsichiatra infantile) può aiutare a sciogliere nodi e dilemmi emersi in itinere e rendere più fluido ed efficace il lavoro del nutrizionista.
Il grafico 1 mostra l’andamento dell’Indice di Massa Corporea di un bambino di 9 anni, arrivato alla mia attenzione nel mese di maggio 2016 con un valore di IMC al di sopra del 95° centile e tuttora in trattamento (mantenimento). I cinque incontri, in cui il piccolo ha seguito il percorso di riabilitazione nutrizionale, è stato pesato e misurato, si sono intercalati a incontri (in questo caso più numerosi, ovvero otto) con i genitori, soprattutto con la mamma, essendo lei ad occuparsi maggiormente dell’approvvigionamento alimentare e della preparazione dei pasti. Durante queste occasioni sono stati affrontati argomenti quali la scelta dei cibi a minore impatto sulla glicemia, l’importanza del movimento all’aperto, la gestione e il contenimento delle compulsioni relative al cibo, il linguaggio più adeguato da adottare in presenza del bambino e la condivisione di momenti conviviali particolari, come le feste di compleanno e altre ricorrenze. Con il piccolo, invece, ogni volta è stata aggiornata la tabella degli assaggi e delle scelte, in base alle nuove esperienze suggerite; è stato affrontato in modo ludico un argomento relativo alla scelta alimentare, attraverso storie, fumetti e disegni; sono stati messi in atto giochi volti ad aumentare la percezione dell’appetito e della sazietà. Il grafico 2 è relativo al IMC di un adolescente di 15 anni che seguo da marzo 2017.

Grafico 2

Grafico 2

In questo caso, gli strumenti forniti al ragazzo sono stati soprattutto di autogestione nei momenti conviviali coi pari, di consapevolezza delle scelte alimentari quotidiane in autonomia, di rieducazione del gusto, che tipicamente a questa età risulta omologato e poco disponibile ad assaporare cibi semplici e non industriali.
L’aderenza al percorso è molto legata alla motivazione che innanzitutto i genitori e di conseguenza il bambino mostrano sin dall’inizio. Ma i risultati, soprattutto se arrivano già dai primi incontri, sono sicuramente un ottimo incentivo, insieme all’atteggiamento accogliente, sereno, giocoso e propositivo del professionista.

 

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