Ripartono gli incontri presso il Polo Oncologico dell’Ospedale Santa Chiara di Pisa, curati da La MezzaLuna, dedicati ai malati oncologici e ai loro familiari e caregivers. Ecco i dettagli:
Non ci pensiamo quasi mai mentre prepariamo una pietanza per i nostri cari, un panino per i nostri figli, uno stuzzichino per i nostri amici. Ma nutrire gli altri è un vero privilegio, un atto speciale, fatto di piccole azioni imparate dall’istinto, che ci introduce ogni volta nella dimensione preziosa dell’accudimento. Nel prendersi cura degli altri attraverso la manipolazione e l’offerta di cibo c’è la manifestazione di una memoria atavica e sociale, un valore che oggi difficilmente resiste sotto i colpi impietosi delle leggi di mercato. Eppure, attraverso quel cibo passa la rassicurazione di non essere soli, di appartenere a qualcosa, di avere una casa accogliente in cui tornare; dove la casa è ora la dimora della nostra famiglia, ora il nostro corpo che ci accompagna ogni giorno, o ancora il sistema sociale a cui apparteniamo.
L’importanza di questo atto così simbolico non è sfuggita all’industria alimentare che ci propina continuamente immagini di famiglie felici intorno ad allegre tavole imbandite, sapendo di giocare coi bisogni fondamentali che oggi stentano ad avere risposte reali e creandone così di nuovi ed effimeri a cui essa stessa, l’industria del cibo, risponde prontamente. Essa, difatti, in un certo senso nutre, è innegabile; a volte può facilitarci l’esistenza, risolvere qualche problema nel quotidiano, ma non porta con sé quella ricchezza fisiologica che connota in natura l’atto del nutrimento. E’ bene esserne consapevoli. Scartare e offrire un cibo industriale è un atto senza storia, né memoria; un gesto che si dimentica da sé, si autoesclude dalle esperienze personali, non genera né supporta alcuna relazione. Un gesto che risponde soltanto al bisogno di consumare qualcosa di commestibile che appaghi il palato e il desiderio si risparmiare tempo, denaro e sentimenti. Per questo progetto sono necessari nuovi gusti, nuovi cibi, nuove abitudini che neghino modelli e strade antichi e creino, al contrario, nuove strutture, snelle, rapide, trendy.
Ma cosa sarà di questa nuova casa senza fondamenta?
La prevenzione è la messa in pratica di una serie di strumenti, individuali e collettivi, che permettono di preservare la salute; ovvero, di “arrivare prima” delle malattie. La scienza ci dice chiaramente da tempo che gli stili di vita, e fra questi quello alimentare, sono uno strumento fondamentale per prevenire molte fra le patologie più diffuse nella nostra epoca: metaboliche, cardiovascolari, tumorali, gastro-enteriche, neurodegenerative, autoimmuni. Per quale motivo, allora, pur sapendo che mangiare correttamente e muoversi ogni giorno può allungare la vita e renderla qualitativamente migliore, spesso si continua a non prendere in considerazione la questione, attendendo che un esame diagnostico o un evento nefasto ci facciano cambiare idea?
Daniel Goleman nel suo Intelligenza ecologica sostiene che l’essere umano non riesce ad allarmarsi di fronte a minacce che lo attendono in un’epoca imprecisata del futuro, mentre è ben disposto al cambiamento una volta che le sue certezze siano state messe fortemente e drammaticamente in discussione. Questo concetto, sviluppato da Goleman a proposito dell’utilizzo spregiudicato e del conseguente depauperamento delle risorse terrestri, può senza dubbio essere trasferito dalla dimensione ecologica a quella individuale. Oggi, rispetto ad epoche passate, abbiamo molti strumenti per “arrivare prima”; l’informazione è alla portata di tutti, l’educazione alla salute e l’educazione alimentare sono discipline molto diffuse e accessibili. Ma quello che farebbe la differenza è il cambiamento, al quale invece non facciamo che opporre resistenza. In un saggio affascinante dal titolo La storia del corpo umano, l’autore Daniel Lieberman sostiene che l’evoluzione culturale, aprendo le porte alla conquista di comodità e benessere abbia surclassato e, in un certo senso mortificato, quella fisica che ha reso il nostro organismo adatto ad alcuni comportamenti e non ad altri. Saperlo, però, dovrebbe farci riflettere, poiché non prendersi cura della propria casa, sia essa la Natura o il proprio organismo, significa eludere questioni che ci riguardano da vicino e che fanno la differenza fra stare in salute o ammalarsi (sia in senso ecologico che individuale). Allora, perché “usurare” senza riguardo qualcosa che possiamo preservare e che può garantirci salute e longevità?
Con gli anni, ho imparato dal mio lavoro che la prima cosa da valutare nei casi di sovrappeso e obesità non è il peso in eccesso, ma l’individuo stesso, fatto di pensieri, comportamenti, gusti, disgusti, emozioni e sentimenti. Valutare solo il suo peso è riduttivo, così come lo è mirare al solo dimagrimento. Una volta raggiunto un peso accettabile, le sue abitudini pregresse torneranno a farla da padrone se non abbiamo lavorato per ristrutturarle e riabilitarle. Il percorso nutrizionale deve essere sostenibile e personalizzato, prevedere momenti di autovalutazione e confronto con altri individui; porre al primo piano la gestione dell’appetito e delle trasgressioni, coerentemente con le abitudini e i bisogni della persona. Poiché solo acquisendo strumenti pratici e funzionali l’individuo sarà in grado di affrontare i momenti di fragilità e gestirli al meglio. Evitare trasgressioni e gratificazioni significa eludere il problema e rimandarne la soluzione, instaurando un circolo vizioso fra le compulsioni e i sensi di colpa. E’ importante chiarire da subito che gli obiettivi si raggiungono con la collaborazione, la fiducia nel trattamento e nelle proprie abilità. E, poiché chi ben comincia è a metà dell’opera, credo si debba iniziare da una comunicazione corretta e un atteggiamento di accoglienza e ascolto. Solo così si può riabilitare, risolvere e costruire
L’immagine è relativa al trattamento di riabilitazione nutrizionale di un uomo obeso di 40 anni, in assenza di complicanze. Il suo Indice di Massa Corporeo (IMC, o BMI in inglese) si è ridotto in maniera sostanziale e graduale, sin dalle prime settimane di trattamento (fino a questo momento, 14 settimane): l’individuo non è stato sottoposto a nessuna dieta restrittiva, ma è stato rieducato alla scelta di cibi adeguati, alla gestione dell’appetito, di eventuali momenti di compulsione e di momenti di condivisione a tavola (feste, aperitivi con gli amici, ecc.). Oltre alla rieducazione alimentare, sta seguendo un’attività fisica quotidiana e moderata.
Orari, sedi e modalità operative dello studio nutrizionale.
Immagine e testo di Giusi D’Urso
Ovvero, come un meccanismo salvavita può giocare brutti scherzi!
Tutti noi, oggi, ci sentiamo “stressati”, nel senso che siano oberati di impegni, affaticati dalle corse con il tempo, sfiancati dalla costante sensazione di non farcela. Tuttavia, il termine stress dal punto di vista biologico è un adattamento molto antico che, in condizioni estreme, ci ha permesso di sopravvivere. Si tratta, infatti, di una serie di risposte efficientissime in grado di attivare le nostre riserve energetiche nei momenti in cui se ne presenti la necessità. Pensiamo, ad esempio, al bisogno di fughe veloci dinnanzi a un grosso predatore o a un terremoto. Nulla di più utile e positivo, dunque!
In realtà, però, così come lo viviamo oggi, lo stress diventa uno stato di allerta cronico che riserva non poche sorprese svantaggiose per la nostra salute. In primo luogo, è alla base della produzione continua di cortisolo, ormone deputato, fra molte altre cose, a stimolare il rilascio di glucosio nel sangue e la tendenza a scegliere cibi calorici (sempre per l’antichissimo “vizio” di utilizzare l’energia per salvarci la pelle!). Questa tendenza provoca un aumento della produzione di insulina che, una volta immessa nel sangue, favorisce accumulo di scorte adipose. La situazione di ipersecrezione insulinica protratta a lungo inibisce la risposta del cervello a un altro ormone importante: la leptina, prodotta dalle cellule adipose come segnale di sazietà. Le cose sono ulteriormente peggiorate dal fatto che lo stress a lungo termine e la conseguente produzione prolungata di cortisolo rendono il sonno più breve e meno riposante: questo innalza i livelli di grelina, ormone gastrico e pancreatico che stimola l’appetito. Inoltre, il ricorso a cibo calorico dovuto agli alti livelli di cortisolo si traduce oggi nella tendenza a consumare alimenti “consolatori” (comfort food) che un tempo non esistevano e che mettono a dura prova il nostro equilibrio metabolico. Tutto, dunque, gioca contro il mantenimento di un peso corporeo adeguato e saperlo ci aiuta a capire come uscire da questo loop che si autoalimenta. Insieme a scelte alimentari adeguate ed equilibrate, quindi, diventa importantissima anche la gestione dello stress.
Immagine tratta dal mio libro “Spunti di Nutrizione ed altro…” MdS Editore
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Fino a qualche anno fa non avrei mai immaginato di utilizzare le mie competenze professionali in ambiti così particolari e specifici quali quelli della disabilità fisica e cognitiva e degli stati di disagio psicologico e sociale.
Per caso – ma il caso esiste? – ebbi anni fa l’occasione e il privilegio di lavorare con bambini affetti da patologie genetiche, anche gravi e quella esperienza – lo ricordo bene – mi cambiò per sempre, offrendomi la possibilità di utilizzare i miei strumenti in un modo inatteso e, al tempo stesso, dandomi la sensazione di potermi rendere utile in ambiti che fino a quel momento avevo considerato lontani dal mio. La riflessione che ne è scaturita mi ha portata alla convinzione, sempre più strutturata, che il cibo e l’atto di alimentarsi e di lasciarsi alimentare sono azioni assolutamente imprescindibili e che, più spesso di quanto immaginiamo, possono rappresentare un rifugio, una via d’uscita, un supporto a svariati percorsi e protocolli terapeutici.
Di recente, questa esperienza interessante si è, in un certo senso, integrata e arricchita attraverso un’altra: quella del disagio psichico e sociale. In modo sorprendente, il cibo, la cura per i propri gusti, del proprio corpo, la consapevolezza di ciò che scegliamo, insomma, l’attenzione a come ci nutriamo possono coadiuvare percorsi e recuperi in questi ambiti così complessi. Lavorare sulle dinamiche nutrizionali, manipolare gli alimenti, raccontare le proprie preferenze a tavola e confrontarsi con gli altri significa spesso recuperare il rapporto con il proprio corpo e con ciò che lo appaga e lo fa stare bene. Il cibo è, ancora e sempre, il legame profondo con chi ci ha nutrito e ci nutre, con la terra, con noi stessi, con la nostra storia: l’espressione più alta dell’accudimento e dell’auto-accudimento. Come ho fatto anni fa a non immaginare risvolti così interessanti?
Ogni giorno scopro che fare la nutrizionista significa lavorare su più fronti, essere aperti all’aggiornamento costante e profondo, imparare continuamente dagli altri e adoperarsi per rendersi utili.
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Immagine di Giusi D’Urso (tratta dal testo Spunti di nutrizione ed altro. MdS)
Ovvero, cosa resta del tempo che fu?
Ci sono nozioni che servono a fare luce sui nostri comportamenti. A volte, possono sembrare cose lontane. In realtà, sapere da dove veniamo aiuta spesso a capire verso cosa e in che modo stiamo procedendo.
Dai primi ominidi in poi, il corpo umano ha subito modificazioni profonde. Quella che ha avuto maggiori ripercussioni sulla nostra evoluzione in uomini moderni è probabilmente l’aumento delle dimensioni del cervello. Questa trasformazione è iniziata dall’era glaciale e si è protratta fino allo sviluppo del cervello di Homo Sapiens che ha dimensioni medie pari a 1350 centimetri cubi. Lo sviluppo di un grande cervello, realizzatosi con l’acquisizione una vastissima rete neuronale (l’uomo possiede circa 11,5 miliardi di neuroni, lo scimpanzé circa 6,5) ha avuto non pochi risvolti positivi: ha reso l’essere umano abile al ragionamento, ha sviluppato la memoria, le competenze e la capacità di apprendimento. Ma soprattutto lo ha reso un ottimo naturalista e un essere altamente adeguato alla socialità: i cacciatori-raccoglitori, nutrendosi di animali e di molte specie vegetali, necessitavano di notevoli competenze in fatto di cicli vitali animali e di stagionalità delle piante. Inoltre, vivendo in condizioni climatiche spesso estreme, avevano bisogno di strategie efficaci per trovare cibo e riparo, costruire armi e utensili e, soprattutto, collaborare con i loro simili: i comportamenti cooperativi, difatti, richiedono abilità molto complesse (comunicare, limitare comportamenti aggressivi, comprendere i bisogni altrui, memorizzare ruoli sociali). Un cervello così grande e potente, però, aveva delle richieste energetiche enormi, questo è il motivo per cui si è evoluto nelle epoche in cui è risultato possibile accedere a nicchie alimentari varie che offrissero alimenti energeticamente più ricchi di bacche, foglie e radici. La svolta che ha reso possibile lo sviluppo del grande cervello è stata rappresentata da molteplici “occasioni vantaggiose”: l’accesso ai grassi animali (carne e pesce) che hanno fornito quote energetiche superiori e materia prima per la costruzione del tessuto nervoso; la tendenza a fare depositi grassi che ha permesso la sopravvivenza in epoche di cambiamenti climatici estremi che portavano a carestie e siccità prolungate nel tempo; e le condizioni climatiche poco favorevoli, che hanno prodotto necessari e impegnativi esercizi d’ingegno.
Oggi – ne converrete – le condizioni in cui viviamo sono estremamente lontane da quelle che ci hanno forgiati e resi esseri intelligenti, resistenti al caldo e al freddo, atti a camminare e a correre, adattati a instaurare numerose e complesse reti sociali. Ciò che resta di epoche così lontane – e non mi pare affatto poco – sono le abilità. Ci piaccia o no, siamo fatti per muoverci, ingegnarci, collaborare con i nostri simili e nutrirci dell’essenziale. Forse prenderne atto ci aiuta ad attivare cambiamenti virtuosi del nostro stile di vita: non serve tornare a condizioni primitive, né rinunciare a ciò che con fatica e impegno l’essere umano ha conquistato e realizzato. Sapere e riflettere su ciò che oggi la scienza è in grado di spiegare è utile per tornare a fare i conti con le nostre effettive necessità.
Testo e immagine di Giusi D’Urso
Per approfondire
La storia del corpo umano. D. Lieberman. Le Scienze
In carne e ossa. Biondi et al. Editori Laterza
Informazioni su sedi, orari e modalità operative delle studio nutrizionale
consapevolezza alimentare, educazione alimentare, In salute col cibo
abitudini alimentari, antropologia alimentare, cacciatori-raccoglitori, grande cervello, Homo sapiens, scelta onnivora
Il pasto assistito è un o strumento utilizzato nel trattamento dei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) e consiste in un momento di osservazione in cui la paziente (o il paziente) viene assistita durante i pasti da un operatore per aiutarla/o a superare gli ostacoli che impediscono un’assunzione adeguata di nutrienti per quantità e qualità.
Nella mia pratica, tuttavia, ho sperimentato, e negli anni collaudato, un pasto assistito particolare, o più correttamente un pasto “osservato”, adattandolo ai problemi alimentari in età pediatrica, che siano relativi all’inappetenza comune, a disordini alimentari di vario tipo o al rifiuto pervicace del cibo. Si tratta di osservare la bambina o il bambino in questione durante uno dei pasti principali, possibilmente quello che nel racconto dei genitori viene riferito più problematico, e raccogliere in quel contesto una serie di informazioni che possono essere utili al completamento di una buona anamnesi. L’osservazione deve avvenire in totale accordo con i genitori, in completo silenzio da parte dell’operatore e con modalità non invasive.
In genere, questo tipo di osservazione, meglio se ripetuta più di una volta, si rivela molto utile (in qualche caso, addirittura, illuminante) nel reperire informazioni e chiarire dinamiche alimentari complesse.
Sebbene possa risultare una richiesta insolita, soprattutto all’inizio di un percorso di riabilitazione alimentare dei piccoli, il pasto assistito in età pediatrica , come momento di attenta osservazione, rappresenta a mio avviso uno strumento prezioso per chi lavora nell’ambito della nutrizione pediatrica.
Immagine tratta dal web
Informazioni su sedi, orari e modalità operative dello studio nutrizionale
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Le risposte dei grandi
Se non mangiomi vuoi bene?
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immagine tratta da vitadamamma.com
Il 17 aprile 2015 ripartiranno gli incontri gratuiti de La MezzaLuna presso il Polo Oncologico dell’Azienda Ospedaliera Pisana, in collaborazione con l’Associazione Oncologica Pisana “P. Trivella”. Si tratta del terzo ciclo di lezioni/conversazioni dedicate all’alimentazione e alla gestione delle emozioni nei pazienti oncologici: in particolare, il primo (2013) è stato destinato agli operatori sanitari, mentre gli ultimi due (2013/2014) ai malati e a chi se ne prende cura ogni giorno (parenti e altre figure).
Sta per iniziare, dunque, il quarto ciclo di incontri, rinnovato e aggiornato: un’esperienza che ci rende fieri di ciò che come Centro di Educazione Alimentare facciamo ogni giorno, con passione e dedizione. Un impegno che ci gratifica e ci arricchisce.
Un grazie all’Associazione Oncologica Pisana, all’oncologo dott. Antonuzzo e a chi ha partecipato agli incontri precedenti.
Vi aspetto, insieme a Cristina Cherchi, pedagogista clinica!
Gli incontri avranno luogo presso la sala al piano terreno del Polo Oncologico dell’Ospedale Santa Chiara di Pisa dalle 15,30 alle 17,30 nelle seguenti date:
17 aprile
15 maggio
19 giugno
Condurranno gli incontri:
Dott.ssa Giusi D’Urso – Biologa Nutrizionista Dott.ssa Cristina Cherchi – Pedagogista clinica (esperte de La Mezzaluna – Centro Educazione alimentare)
L’iniziativa è diretta ai pazienti oncologici, familiari, caregiver,
volontari, personale sanitario e chiunque sia interessato all’argomento.
Per informazioni:
Segreteria AOPI tel. 05046217
A.O.PI. Gruppo Donna Tel. 050992869
(dal lunedì al venerdì dalle 10,00 alle 12,00)