Archivio della categoria: Nutrizione

Elogio (moderato) del digiuno

cropped-spuntino1.jpgAl mondo esistono popolazioni molto longeve e sanissime, in grado di procreare fino a tarda età e invecchiare in buona salute. Come ad esempio, gli Hunza, che vivono al confine nord del Pakistan, all’interno di una valle sulla catena Himalayana, mangiano poco e vegetariano, digiunano nei mesi invernali in cui la natura offre loro ben poco cibo, e si muovono molto.
La scienza, d’altra parte, sostiene che la riduzione calorica e, addirittura, brevi periodi di digiuno insieme all’esercizio fisico hanno la capacità di stimolare le funzioni di riparazione di danni tessutali dovuti all’ossidazione, all’invecchiamento e ai prodotti metabolici. Molti studiosi sostengono che sopportare il senso della fame per qualche ora, più di una volta a settimana, aiuta a liberarsi delle tossine accumulate dopo i pasti.
Da nutrizionista non posso che approvare, diffondere e condividere ciò che la scienza ha dimostrato. Ritengo però che tra la tendenza – ahinoi!- così comune a riempirsi fino a scoppiare e il digiuno elogiato dagli studiosi ci sia un ottimo margine di miglioramento del proprio stile alimentare che permette di affrontare il tema della prevenzione a tavola con maggiore moderazione e concretezza. Insomma, diamoci obiettivi raggiungibili!
Se siete dinamici e i vostri pasti sono frugali ed equilibrati, non avrete motivo di preoccuparvi. Se non è così, allora imparate a muovervi ogni giorno e ad alzarvi da tavola non appena il senso di sazietà farà capolino fra la bocca e il piatto!

 

Pubblicato su Dimensione Agricoltura.

Briciole di buon senso

DSCN6597Torno su Pollicino, il bambino alto giusto un pollice che per non perdere la strada del ritorno disseminava chicchi di grano ammuffito. Da bambina me la raccontavano diversamente: Pollicino sbriciolava con perizia un tozzo di pane, le cui briciole venivamo beccate dai corvi. Comunque sia andata davvero, la storia di miseria e disperazione dei due genitori poverissimi che si vedono costretti ad abbandonare i propri figlioletti nel bosco, mette tristezza e mi ricorda quella di popoli lontani, ma nemmeno poi tanto, che non possono assicurare pasti quotidiani ai loro bambini.

Appartengo alla generazione in cui un bambino, quando faceva i capricci a tavola, si sentiva dire spesso “vergognati, ci sono bambini che non hanno nulla da mangiare!”. Forse è per questo che la favola di Pollicino mi ha sempre colpito e che a buttare via il cibo mi sento male.

Tuttavia, da piccola non capivo il peso di quell’esternazione. Cosa c’entravano i capricci a tavola con i bambini africani affamati? Non coglievo bene il senso del rimprovero, se non quello di una sorta di “colpa” che incombeva anche sulla mia testa per il solo fatto di essere nata in una famiglia e in un paese in cui non c’era una tale miseria.

Con stupore, mi rendo conto che affermazioni del genere si ripetono oggi in molte famiglie e in molti momenti conviviali, in cui il bambino di turno, se non mangia o lascia qualcosa nel piatto, attira l’attenzione di tutti gli adulti presenti e viene sottoposto al solito rituale che lo giudica inesorabilmente colpevole di spreco! (Continua a leggere su manidistrega.it)

Quanto ci piace mangiare!

cropped-donne-allopera.jpgFino a qualche decennio fa, per spiegare il ricorso al cibo avremmo scritto e sostenuto che quando nel nostro organismo i nutrienti energetici calano al di sotto di un certo valore soglia percepiamo la necessità di mangiare. Oggi sappiamo che questa spiegazione non basta: non mangiamo solo per colmare carenze energetiche e nutritive. Nell’atto del cibarsi si celano molte e complesse relazioni fra sensi, ambiente, metabolismo e genetica. Dal punto di vista biologico, insomma, l’essere umano mangia perché ha fame, ma quest’unica motivazione non basta, in realtà, a guidare le sue scelte alimentari. Ecco alcuni dei motivi per cui ci piace tanto mangiare.

Gli alimenti che abbiamo a disposizione hanno la capacità di incentivare la scelta e l’approvvigionamento a seconda del momento e del contesto in cui vi siamo esposti. Lo stesso cibo, quindi, può apparire più o meno accattivante a seconda dei momenti in cui veniamo a contatto con esso. Ne è un chiaro esempio la tendenza ad acquistare cibarie anche superflue quando andiamo a fare la spesa a stomaco vuoto. In quel momento subiamo l’anticipazione del piacere di mangiare, più che l’esigenza di introdurre nutrienti energetici. Pensiamo anche all’appetibilità di un gelato in una calda giornata estiva, rispetto all’attrazione che può suscitare in montagna, in un pomeriggio d’inverno! Ci sono, dunque, condizioni ambientali fortemente incentivanti.

È interessante notare quanto pesi sulle nostre scelte alimentari l’aspetto di un prodotto (chi si occupa di pubblicità la sa lunga!) che ha spesso poca o nessuna relazione con il suo valore nutrizionale. Esso può creare aspettative di stimolazioni sensoriali gradevoli che spingono alla scelta. Negli anni ’80 del secolo scorso fu condotto un esperimento sulla relazione fra la dolcezza percepita e il colore di una bibita a base di succo di limone e lime, condotto su individui di 20-25 anni, cui venivano somministrate bibite con 5 intensità diverse di colore e 5 livelli diversi di dolcezza. I risultati dell’esperimento evidenziarono che le persone giudicavano progressivamente più dolci, e quindi più gradevoli, le bibite con il colore progressivamente più intenso. Il sapore dolce, peraltro, preferito sin dai primissimi istanti di vita, è motivo di comportamenti atavici ed ha un valore altamente evolutivo, poiché i cibi dolci rappresentano in genere una fonte immediata di energia.
È stato provato, inoltre, che esiste una connessione tra piacere sensoriale e desiderio di carboidrati e, in particolare, fra carboidrati e umore. Chi sente il bisogno urgente di mangiare zuccheri (semplici o complessi) riferisce in genere di provare sensazioni negative quando si priva di carboidrati: malumore, ansia, spossatezza. Il miglioramento dell’umore successivo alla “ricompensa” fa sì che quel tipo di scelta venga ripetuta. Questo comportamento, però, può indurre a un eccessivo introito di cibi energetici e quindi a un conseguente aumento ponderale. È necessario, quindi, imparare a scegliere i carboidrati, ad evitare il più possibile quelli ad alto indice glicemico e ad associarli ad altri fonti nutritive che ne completino il profilo nutrizionale.

Anche la convivialità, ovvero l’abitudine di stare a tavola insieme ai nostri cari e ai nostri amici, rappresenta un incentivo positivo al consumo di cibo, poiché associamo le sensazioni gradevoli degli alimenti (in genere, i più graditi o  che ci incuriosiscono di più) a quelle della compagnia e della condivisione. È noto a tutti quanto possa essere difficile percepire la sazietà e smettere di mangiare quando si è in compagnia al ristorante!

La voglia di mangiare e, in particolare, quella di “gustare” fa parte di noi. Si sviluppa e si manifesta in vari modi e cela relazioni profonde e imprescindibili fra la nostra fisiologia e tutto quello che, ci piaccia o no, fa parte della nostra storia e della nostra quotidianità.

Chissà che saperlo non ci renda più competenti nelle scelte e più immuni ai sensi di colpa!

 

(pubblicato anche su La MezzaLuna)

Alimentarsi da grandi!

ortaggiLa cosiddetta terza età è, per il nostro Paese, una vera e propria risorsa. In un momento sociale così difficile, la presenza degli anziani che aiutano e supportano i figli e, spesso, le loro famiglie, rappresenta un bene preziosissimo. Ma quanti sono e come stanno?
Secondo le stime dell’Istat, nel 2001 in Italia gli ultrasessantacinquenni ammontavano a circa il 18% della popolazione italiana. Oggi, si stima che entro il 2030 potrebbero essere il 26,5% della popolazione. Inoltre, negli ultimi 20 anni il tasso di over 80 è aumentato del 150%.
Secondo il rapporto “Stato di salute e prestazioni sanitarie nella popolazione anziana” del Ministero della Salute, la popolazione anziana italiana determina il 37% dei ricoveri ospedalieri ordinari e il 49% delle giornate di degenza.
L’allungamento della vita ci pone di fronte a una maggiore incidenza di patologie, soprattutto croniche e ci chiama a riflettere sul ruolo fondamentale della prevenzione in giovane età. I problemi di salute, infatti, non sono una conseguenza inevitabile dell’invecchiamento, in quanto per molti di essi si conoscono strumenti preventivi efficaci, quali, ad esempio, la sana alimentazione, di cui spesso abbiamo parlato in questa rubrica.
Per imparare a mangiare bene, però, non è mai troppo tardi in quanto i benefici di uno stile alimentare corretto sono visibili a breve termine, anche su individui anziani già malati.
Si raccomanda il consumo giornaliero di fonti proteiche, alternando e variando spesso, prediligendo il pesce fra le fonti animali e cereali integrali e legumi fra quelle vegetali. Fondamentale l’idratazione e il consumo abbondante di ortaggi e frutta, freschi e di stagione, che assicurano un adeguato introito di fibre, vitamine, antiossidanti e minerali. Meglio ridurre l’apporto di grassi, privilegiando semmai quelli del pesce azzurro e quelli provenienti da fonti vegetali: olio d’oliva, frutta secca, semi oleosi (girasole, lino, sesamo, zucca). La salute dell’intestino merita un’attenzione particolare: è consigliabile prendersene cura consumando pasti regolari, variando la propria alimentazione e integrando periodicamente la flora batterica. Questo migliorerà gli assorbimenti e le risposte immunitarie.
Importante, mantenere un peso adeguato per non gravare troppo sullo scheletro e tenersi sempre in esercizio, sia fisico che mentale, per facilitare la circolazione, favorire la memoria e curare l’umore.

Artiolo pubblicato su Dimensione Agricoltura di luglio 2014.

Pane e parole. Scrittura in corso…

pane e paroleChi fa della propria scrittura una professione non abbandona mai la spinta iniziale. Quella emotiva. Quella che regala un’insonnia produttiva di cui apprezza il silenzio e la concentrazione. Trasforma, quindi, una passione in lavoro fervido, indipendente dalle scadenze che pure sa di dover rispettare.

Questo, almeno a me, accade, quando scrivo per lavoro. E per questo, dunque, che ogni mia pubblicazione reca sempre con sé qualcosa di narrativo.

Come in Mangiando in allegria (Felici Editore), testo scritto a quattro mani (con la biologa Paola Iacopetti) mentre un’amicizia nasceva e subito si rinsaldava nelle serate trascorse a scriver filastrocche, fra la stanchezza di mamme impegnate e l’entusiasmo condiviso per il buon cibo e le buone pratiche. Come in Spunti di nutrizione ed altro (MdS Editore), in cui l’altro rappresenta ricordi ed emozioni che il cibo mi ha suscitato mentre lavoravo al testo.

Come in Ti racconto la terra (Edizioni ETS), ultimo nato, che fra le pagine del saggio, dedicato alla consapevolezza e alla sostenibilità alimentare, racconta la vita di chi è cresciuto a contatto con la terra e con la fatica quotidiana del lavoro nei campi.

I miei progetti, in genere, si sovrappongono seguendo l’istinto delle idee e il confronto con gli editori li modella, li migliora e li colma di aspettative che, in un modo o nell’altro, alimentano fantasia e creatività. Per questo, e per mille altri motivi che sarebbe lungo raccontare, lavoro a diversi libri contemporaneamente.

Le prossime uscite, su cui nulla di più di ciò che leggerete posso al momento rivelare, saranno di tono diverso. Libri dedicati a lettori differenti, dunque: alcuni serviranno ad approfondire, altri ad avvicinarsi ai temi della nutrizione e della scelta alimentare consapevole e altri ancora a raccontare il cibo attraverso la vita reale e la fantasia. E la narrativa, la voglia di raccontare la vita con curiosità e stupore, faranno sempre capolino in tutti i miei lavori.

Questo è l’intento originale. Ma, si sa, i libri vanno dove li porta il cuore di chi legge e sorprendono sempre chi li ha scritti. Eccomi, dunque, pronta a sorprendermi ancora per il viaggio suggestivo e imprevisto che i prossimi lavori vorranno regalarmi; grata, tanto e sempre, a chi li vorrà leggere.

Storie alla stufa

olioNelle storie dei nonni c’è sempre una fata buona, un lupo cattivo e una bambina sperduta. Ancora mi chiedo come mai in quelle che raccontava mia nonna c’era altro: Tito il cane pestifero, Mammi la gatta ubriaca, Giufà il pastore ingordo e molti altri soggetti che ricordo con affetto, sorridendo fra me e me.

Davanti alla sua stufa a legna non si narravano storie di principesse sfortunate e di principi azzurri in calzamaglia, ma di furti di salsicce e rocamboleschi inseguimenti nei vicoli di paese.

Devo ammetterlo: erano storie parecchio interessanti. Io e i miei fratelli stavamo ad ascoltarle per ore, sgranocchiando la merenda insieme al tempo e alle parole.

Spesso lo spuntino pomeridiano si prolungava fino a tardi; ché mangiare masticando racconti, si sa, è assai sfizioso. D’altra parte, ciò che mangiavamo davanti alla sua stufa faceva venire a nonna la voglia di raccontare.

Un giorno, mentre facevamo merenda con pane casalingo accompagnato a frutta secca, ci raccontò di un frate ghiotto, Fra Felice, che passava il suo tempo in cucina a scucchiaiare ed impastare. Ottimo cuoco e amante dei distillati, era ghiotto di tutto, ma soprattutto di pane e noci. Era la storia, questa, di un frate mangione e di una balia affamata, la gatta Mammi, che aveva da sfamare ben otto cuccioli: quattro suoi e altri due di una gatta morta schiacciata sotto un’auto. Mammi, un giorno, entrò di soppiatto in cucina e si avvicinò senza fare rumore alla sedia dove Fra Felice aveva appoggiato un bel pezzo di lardo da speziare. Sul pavimento, là vicino, una casseruola piena … d’acqua. Più della fame, poté la sete e Mammi si dissetò. Ma non d’acqua: bevve il nocino del frate e si ubriacò. Inseguita da Fra Felice, arrancò barcollando verso la porta e fuggi a gambe levate, un po’ storta, un po’ strana, a zig zag!

Un pomeriggio in cui la merenda sapeva di formaggio, nonna raccontò di Giufà il pastore che non riusciva mai a vendere le sue caciotte perché se le mangiava prima. E quando ci raccontava del cane Tito, invece, era col pane e olio che si faceva lo spuntino. Tito era pestifero. Il suo padrone, invece, parsimonioso. Per non sprecare l’olio che gocciolava dalla bottiglia s’era inventato un collare di spugna da infilare nel collo dell’ampolla e da strizzare una volta che fosse imbevuto a dovere. La spugna era ora rosa, ora azzurra o verde pisello e Tito, pestifero, non riusciva a sopportarla. Se le capitava a tiro la mordeva e la tirava fino a far rotolare giù tutta la bottiglia e…addio olio!

Quando nel mio lavoro parlo con i bambini e chiedo loro cosa mangiano a merenda spesso mi indicano prodotti con nomi che non ricordano nemmeno da lontano le mie merende. Sento parlare di gocciole e pangocciole, fruttoli e fruttini, fetteallatte e sottilette e, confesso, l’unica cosa che mi viene in mente è uno scioglilingua un po’ sciocco che da bambina mi raccontavo per esercitarmi con le parole: frutta che nella fretta frani nel fango, frullando frettolosamente un frappè… Null’altro mi rammentano questi nomi cui sono avvezzi i bambini d’oggi: né una favola, né un sogno, né un ricordo.

Allora, mi chiedo, quali storie potranno raccontare ai loro figli?

Pubblicato su manidistrega.it

Pericolose interpretazioni

cropped-IMG_1909.jpgHo sempre pensato che la lingua italiana abbia l’immenso privilegio delle origini antiche e la generosità di espressioni molto variegate e versatili. È una lingua bellissima, ricca di sostantivi, aggettivi, sinonimi che si prestano a diversi significati, ad espressioni sfaccettate e sfumate. Rifletto spesso sulle parole, sulla loro origine, sul loro suono; e ce n’è una su cui da tempo mi arrovello: dieta.

Gli antichi greci, coniando il termine diaita, non avevano di certo in mente né il concetto di caloria né quello restrittivo di rinuncia alimentare finalizzata al dimagrimento.
È noto, invece, che questo termine, da cui oggi deriva il nostro abusatissimo “dieta”, significasse cura dello stile di vita per mantenersi in salute. Che ne è stato col passare del tempo di questo “senso” così prezioso?
Questa parola così piccola, col suo fardello di senso da portarsi dietro, generazione dopo generazione, epoca dopo epoca, moda dopo moda è arrivata fino a noi assolutamente irriconoscibile. Ed eccoci qui, a comprare libri su questa dieta o quell’altra, a metterci a dieta prima dell’estate, a prendere al volo offerte fantastiche di consulenze gratuite e diete on line, ad affidarci ad “house” più o meno specializzate che ci vendono prodotti dietetici a peso d’oro.

È accaduto che ognuno di noi, almeno una volta nella propria vita, si sia ritrovato a leggere mestamente un foglietto in cui da una parte figurano gli alimenti dietetici e dall’altro i grammi e le calorie corrispondenti. È accaduto e accade che inimmaginabili “esperti” abbiano ritenuto legittimo “sfornare” diete: chiunque abbia pensato che occuparsi (professionalmente o meno) di bellezza, salute, corpo, terra e cucina possa automaticamente rendere competenti sul tema “nutrizione” e, dunque, abilitati a fornire piani alimentari e dispensare consigli di dietistica. In fondo – si vocifera – per perdere peso basta mangiare meno e fare ginnastica!
Questo è accaduto, modificando così profondamente il significato di quella piccola parola.

Quante pericolose interpretazioni!

Se, per ipotesi fantastica, potessimo prescrivere una dieta dimagrante a una pecora, innegabilmente e irrimediabilmente erbivora, credo che i danni sarebbero ridottissimi; ci limiteremmo in fondo a farle perdere peso (oltre che a generare il cruccio sacrosanto della pecorella in questione!). L’essere umano, invece, avendo accesso ad una miriade di nicchie alimentari, è fornito di strumenti sofisticati di “adattamento nutrizionale”, grazie ai quali ha superato fasi storiche che hanno messo a dura prova la sua sopravvivenza. Egli, onnivoro e fisiologicamente neofobico, si ferma, diffidente, di fronte ad un cibo sconosciuto e lo assaggia con prudenza (pensiamo ai bambini!), valutandone eventuali effetti pericolosi. Questo significa che il cibo, per l’uomo, ha connotazioni complesse, antiche, articolatissime, come ad esempio quella sociale ed emozionale, da cui, volente o nolente, non può prescindere.

Le restrizioni, l’eccessivo controllo nella scelta alimentare, il totale disinteresse per la qualità, la provenienza e il gusto del cibo fanno parte del nuovo, dissacrante e distruttivo, significato della piccola parola diaita che, a nostra insaputa o a nostro dispetto, sta devastando il rapporto che l’uomo ha faticosamente e “sperimentalmente” costruito con il cibo di cui si nutre. Quest’ultimo, dunque, è diventato ora un nemico ora un farmaco; ora una pozione magica ora una panacea. Viene addizionato di vitamine, minerali e omega tre per essere “funzionale” e potenzialmente “protettivo”; viene demonizzato o mitizzato; diventa oggetto di sproloqui e di sentenze lapidarie, sui giornali, in tv, sui social; assurge a tema centrale di trasmissioni televisive propinateci compulsivamente ed ossessivamente. Senza pensare alle conseguenze. Senza immaginare, tanto meno spiegare, la meraviglia e la complessità di ciò che il cibo fa dentro ognuno di noi, né la strada che esso ha compiuto per arrivare fino al nostro piatto.
Nutrire e nutrirsi, ovvero prendersi cura di se stessi e degli altri. Perché discuterne in un salotto televisivo? Perché utilizzare l’argomento per titoli allarmistici sui giornali? E’ la Scienza, semmai, che deve occuparsene facendo molta, moltissima attenzione a non attentare ai significati originali e restituendo a tutti noi il vero “senso” di cose e parole.

Diaita. A me questa parola piace. Continuo a scriverla, a pronunciarla a voce alta e a godere del suono che produce. La scrivo sui miei quaderni, sull’agenda, sui miei libri…Diaita, la cura di sé, l’istinto e il piacere di mantenersi in salute. E il cibo? Dove collochiamo, allora, questo preziosissimo strumento di sopravvivenza? Insieme alla mia parola preferita, nella scatola mnemonica dell’ “istinto”, accanto a quella della “consapevolezza” e dell’ “ascolto di noi stessi”, senza cadere nelle trappole commerciali, senza lasciarsi tentare dalle strade in discesa che conducono ad obiettivi effimeri, senza disimparare chi siamo e da dove veniamo e, soprattutto, senza permettere a nessuno di cambiare il senso di cose così importanti come il nostro rapporto con il cibo.

foto di Giusi D’Urso

Diabete e legumi: facciano la pace!

“Ho il diabete di tipo 2. Sono stabilizzato dai farmaci ma non so più cosa mangiare!”, questo mi è capitato di sentire, più volte. E mi sono amareggiata di fronte al disagio mostrato da persone affette da questa malattia cronica, con una terapia farmacologica ben strutturata, ma con molte difficoltà a tavola. Sembra, ad ascoltarli, che non abbiano più scelta, che stare a tavola per loro sia un sacrificio, tante sono le rinunce ; tanti gli alimenti  che sembrano costretti a non mangiare più.
Perché, mi chiedo, se sui testi di patologia e nutrizione clinica, sugli articoli della letteratura scientifica più aggiornata, viene raccomandata, nei casi di glicemia stabilizzata e gestibile, una dieta povera di grassi, ricca di fibre e non priva di carboidrati (praticamente una dieta mediterranea pura!)?
Fino agli anni ’70 dello scorso secolo la dieta per il paziente diabetico era a basso contenuto di carboidrati. Tuttavia, fu visto che, diminuendo la quota di carboidrati nella dieta giornaliera, aumentava quella dei lipidi e delle proteine, con gravi conseguenze sul quadro clinico e sul rischio di malattie cardiovascolari. Pertanto, oggi, si consiglia, o si dovrebbe consigliare, un introito di carboidrati pari al 50-55% delle calorie totali giornaliere. E’ la qualità di questo 55% a fare la differenza: sono, infatti, da raccomandare carboidrati complessi e ricchi di fibra (pane, pasta, farro e riso integrali).
Il mio stupore e la mia amarezza si fanno ancora più grandi quando apprendo dai pazienti che sono stati esclusi dalla loro dieta i legumi in quanto “troppo amidacei”!

Le lenticchie hanno un Indice Glicemico di 29, i fagioli con l’occhio 28, i fagioli di soia 20 (il riferimento è il glucosio, il cui IG è pari a 100).

E’ vero, i legumi sono amidacei, ma il loro basso indice glicemico dipende dalla grande quantità di fibra che, oltre a conferire a questi alimenti un alto potere saziante, apportare vitamine, sali minerali e steroli vegetali, limita l’assorbimento di grassi e carboidrati semplici.
Perché mai, dunque, privare un paziente diabetico di una buona e sana minestra di cereali (integrali) e legumi? Perché, non soffermarsi un attimo a valutare la possibilità di rendere la qualità della sua alimentazione (e quindi della sua vita) gradevole e, finalmente, più accettabile?

Dal 1970 ad oggi ne è passata di “scienza” sotto i ponti. Suvvia, diabete e legumi, adesso, facciano la pace!

“Fa che il Cibo sia la tua Medicina
e che la Medicina sia il tuo Cibo” (Ippocrate)

 

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