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Ti racconto la terra- recensioni e interviste

 

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A questo link puoi ascoltare la registrazione dell’intervista rilasciata a La dolce linea, di Tiziana Stallone, per RaiRadioWeb, il 15 novembre 2013.

A questo, invece, puoi leggere la prima recensione sul blog di Laura Montanari (Repubblica Firenze).

 

 

 

Le foto della presentazione al Caffè di Repubblica del
Pisa Book Festival 2013, con Laura Montanari e Fabio Galati.

Foto: Repubblica Caffe' - Pisa Book Festival- Giusi D'Urso presenta Presenta "Ti racconto la terra"

Ti racconto la terra

E’ uscito il mio ultimo libro: “Ti racconto la terra”, per Edizioni ETS, con la prefazione di Rossano Pazzagli e le storie di vita contadina di Stefano Berti.

3672_Durso_cover_STAMPA_03L’agricoltura diventa la poesia di un racconto di vita vissuta, che insegna a chi legge la fatica e l’incanto della vita in campagna, e la ricostruzione del rapporto antico fra chi produce il cibo e chi se ne nutre.
Il racconto si intreccia alla divulgazione di temi come la sostenibilità, il paesaggio, le scelte alimentari, la stagionalità, l’educazione alimentare, la prevenzione, le tradizioni a tavola.
Così, dal paradosso dell’agricoltura e del cibo industriale alla consapevolezza alimentare, ogni pagina affronta temi urgenti che non possono più essere appannaggio di tecnici del settore, ma terreno di riflessione per ogni lettore.
Un libro per chiunque voglia cominciare ad operare scelte virtuose, avendone inteso il peso e l’importanza.

Il libro si può acquistare da subito attraverso il sito di Edizioni ETS e dal 20 novembre sarà possibile trovarlo in libreria!
Intanto, puoi leggere la scheda e scaricare i pdf dell’indice e della prefazione.

Buona lettura!

La mela del Ministero

Il noto progetto Frutta nelle scuole, attivato da qualche anno dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, vanta nel suo programma la finalità di aumentare il “consumo di frutta e verdura da parte dei bambini e ad attuare iniziative che supportino più corrette abitudini alimentari e una nutrizione maggiormente equilibrata, nella fase in cui si formano le loro abitudini alimentari”.fruttanellescuole
Senza nulla togliere alla bontà delle intenzioni, vorrei riflettere sul metodo, partendo dalla mela (frutto comune, in genere amato dai bambini) che il Ministero ha ritenuto frutto adeguato per i nostri figli. Da qui, forse, ognuno di noi potrà fare le proprie considerazioni anche sugli altri prodotti e sul modo in cui vengono distribuiti a scuola.
Penso proprio alla mela biologica, tagliata a tocchetti, cosparsa di antiossidante, chiusa in vaschette di plastica riciclabile. Sa di “medicina”! Ma risponde a precise norme di sicurezza, della cui importanza però è difficile spiegare ai bambini. È biologica! Ma, se è vero che il cibo biologico è nato dalla necessità e la volontà di avere un pianeta più pulito, perché lo facciamo viaggiare in lungo e largo per il Paese, producendo CO2? È tagliata a tocchetti! Il consumo è veloce e pratico, ma non stimola le sensazioni che dovrebbe.

Un paio di domande per il Ministero, allora: cosa racconteremo ai nostri bambini quando si troveranno per le mani una mela intera, da toccare, addentare, assaporare e riconoscere, al sapore di mela, proveniente da un frutteto del nostro territorio? Qual è, secondo gli esperti ministeriali, la mela giusta?

 

 

Su Dimensione Agricoltura di ottobre 2013

 

Incontri di Educazione Alimentare

Viviamo in un’epoca in cui la medicina, sempre più spesso e sempre meglio, può salvarci la vita. Ce lo ripetono ogni giorno tutti i giornali, le riviste, i programmi tv. Oltre agli innegabili passi avanti della medicina e della farmacologia, però, c’è uno strumento meno invasivo e meno costoso, alla portata di tutti, di cui si parla sempre meno. Ed è la prevenzione.
La vita è un progetto biologico del quale, spesso, ognuno di noi può decidere l’andamento. In definitiva, attraverso scelte personali possiamo scegliere di stare più o meno bene, modificando il nostro stile di vita.
Le scelte alimentari occupano uno spazio ampio nell’ambito dello stile di vita individuale; scegliere bene il nostro cibo, dunque, rispettando le produzioni stagionali e territoriali, significa scegliere di stare in salute e, contestualmente, mantenere in salute il territorio in cui viviamo.

Vi aspettiamo all’incontro del 18, il primo della serie di incontri gratuiti di educazione alimentare. Con Confederazione Italiana Agricoltori Pisa

Obesità e magrezze estreme: due facce della stessa medaglia

La primavera è il periodo dell’anno in cui si fa un gran parlare di diete, pancia, grasso, cellulite e peso forma. Mettersi a nudo, si sa, è cosa assai faticosa, se il rituale balneare diventa una passerella per addominali, bicipiti e quadricipiti prestanti e se il confronto crea ansia e disagio.

Per chi fa il mio lavoro parlare di peso e di alimentazione è “pane” quotidiano e sempre più lo è anche avere a che fare con magrezze estreme che, seppure opposte al più comune sovrappeso, pongono gli stessi interrogativi e fanno vibrare, anche se in modo diverso, le stesse corde emotive.

Si tratta, insomma, delle due facce di una stessa medaglia. Due lati, ancora per molti versi oscuri, della stessa complessa e sempre più dibattuta faccenda “cibo”.

In entrambi i casi, infatti, ciò che fa riflettere è il rapporto con l’alimentazione, misterioso, atavico, ma sempre più destrutturato e controverso.

E se per un problema si continua, in maniera quasi automatica e a volte irresponsabile, a fornire questa o quella dieta che magicamente faccia sparire i chili di troppo, per l’altro ci si arrovella su percorsi cognitivi-comportamentali, su approcci più o meno efficaci, su modelli più o meno adeguati. Ma il comune denominatore è, sempre e comunque, il cibo.

La stessa medaglia, così, si mostra in modo sempre più eclatante nelle sue due facce apparentemente opposte. In realtà, dovremmo fissare l’attenzione su uno solo di questi aspetti, e cioè la medaglia stessa. Cosa sta capitando al nostro rapporto col cibo?

Nel momento in cui la convivialità, il piacere del gusto a tavola, l’apprezzamento di pietanze semplici sono stati riposti fra le cose obsolete, il loro posto è stato inevitabilmente occupato da “altro”. Il vociare dei bambini e il tintinnio delle posate sui  piatti, così come i racconti della giornata e gli apprezzamenti sulle pietanze, sono stati sostituiti dal rumore pervicace della tv, con i suoi slogan, i suoi gingol, le sue frasi ad effetto e le sue immagini, pregnanti ed aggressive, studiate appositamente per condizionare ed essere ricordate a lungo.

Al nostro tavolo, però, c’è un altro ingombrante convitato: il tempo. Tutto ciò che mettiamo a tavola, dai tovaglioli (di carta, perché non si lavano e si fa prima!) alle pietanze (già precotte, così c’è solo da scaldarle e si fa prima!) ai nostri discorsi (meno se ne fanno e meglio è, così non si litiga e si fa prima!) è finalizzato al risparmio di tempo.

Ma, cosa facciamo con tutto questo tempo che risparmiamo in cucina e a tavola? Lavoriamo, per pagare mutui, comprare abbigliamento adeguato, automobili efficienti, telefonini efficienti, computer efficienti. Lavoriamo anche per acquistare tv con una buona risoluzione e un ottimo audio che ci distolgano dalla convivialità. Ma anche per andare a fare massaggi drenanti e sentirci magri come i personaggi televisivi più in voga, per pagarci le vacanze che sentiamo di meritare e per comprare creme che ci fanno snellire mentre dormiamo.

Ho estremizzato e generalizzato, ovviamente, e qualcuno probabilmente si sentirà infastidito dal mio modo di descrivere certi atteggiamenti entrati ormai nel quotidiano e, per questo, reputati normali dai più. Chiedo venia, ho esagerato per efficacia comunicativa!

Il guaio è che devastando la nostra buona consuetudine all’accudimento e alla tradizione stiamo mettendo a rischio serissimo la salute di intere generazioni.

Tutte le relazioni, familiari e non, passano, prima o poi, attraverso il cibo. Esso è uno strumento socializzante eccezionale, il primo, il più antico ed infallibile. Le prime comunità umane sorsero intorno ad un fuoco sul quale si cuoceva e si condivideva il cibo. Attorno a un campo arato con le mani e a cacciagione ripulita, ripartita e offerta dalle donne. La condivisione e l’accudimento sono colonna portante sulla quale si incardina il rapporto con gli altri e con se stessi, con il proprio sé, con la propria identità e la propria immagine. Persino il rispetto per se stessi passa attraverso il cibo, sottoforma di legittima gratificazione, di prevenzione ed auto-accudimento.

A cosa ci servono, allora, i modelli di estrema magrezza e i messaggi pubblicitari sui cibi fortificati, se abbiamo dentro di noi una saggezza infinita fatta di millenni di consuetudini e di tradizioni? Perché lasciarsi indottrinare da nuove “finte” culture, quando abbiamo la nostra, che ci ha permesso di  sopravvivere ed evolverci, di creare intere comunità, di civilizzarci ed accudire adeguatamente la nostra prole?

In realtà, buttare in aria una medaglia dalle due facce così difficili da gestire e interpretare, non è un gioco proficuo. Lo sarebbe molto di più la sfida di recuperare un rapporto più reale e sereno col cibo, senza inseguire modelli inarrivabili, senza sprecare il tempo a rincorrere il tempo per poi sprecarlo di nuovo.

Rimettiamo le relazioni umane al centro della nostra esistenza e il cibo, quello vero, al suo posto, cioè a tavola, fra cucchiai, piatti e vociare di bimbi.

 

 

 

 

Agricoltura depredata e cibo finto: paradossi, conseguenze ed altri orrori

L’industrializzazione del cibo, iniziata dagli anni ’50-‘60 del secolo scorso, ha creato trasformazioni profonde nelle nostre abitudini alimentari e ha posto le basi per lo sviluppo di una serie di patologie metaboliche cui la nostra generazione e quelle future sono e saranno inevitabilmente predisposte. La prima, gravissima conseguenza è sotto gli occhi di tutti: in Italia abbiamo i bambini più grassi d’Europa e si stima  che le nuove generazioni avranno un’aspettativa di vita inferiore a quella delle generazioni precedenti.

Più o meno parallelamente della corsa al cibo industriale si è verificata la cosiddetta rivoluzione verde che, con l’alibi inoppugnabile di voler risolvere i problemi della fame del mondo, ha aperto la strada all’agri-business che oggi spadroneggia a tutto campo, arricchendo in modo smisurato le multinazionali che detengono il monopolio delle sementi ed impoverendo, anzi depredando, intere popolazione contadine del Sud del mondo e non solo. Ma non basta: all’agri-businnes si è aggiunta la rivoluzione genetica, che, dagli anni ’70 in poi, con un altro alibi inoppugnabile, quale quello di aumentare le rese e dare più reddito ai coltivatori, sì è accaparrata un’enorme fetta di mercato, creando e promuovendo a tappeto chimere commestibili, spacciate per il cibo perfetto per l’essere umano, del cui utilizzo ancora oggi non conosciamo le conseguenze.

Partendo, quindi, dall’ossimoro che più gravemente ha danneggiato la nostra cultura e cioè quello dell’agricoltura industriale, siamo arrivati all’effetto che più pesantemente si è abbattuto sull’uomo, rendendo fragile le sue civiltà e annullando certezze antiche e preziose: obesità e fame nel mondo, due lati della stessa medaglia.

Oggi, dunque, fra le sementi Monsanto, le patate BASF e il junk food di MacDonald’s nasce, fortissima e urgente, l’esigenza di tornare alla terra e di rivalutarne il ruolo fondamentale nel quadro economico di un Paese. Siamo dovuti arrivare, cioè, alle aberrazioni per comprendere (di nuovo) il legame profondo fra cibo, terra e cultura di un popolo!

Ma, dopo decenni di propaganda a favore degli ossimori, dei paradossi e di leggi a favore del consumismo sfrenato, tornare alla cultura del parco, semplice, locale e sufficiente è davvero difficile. Eppure, la partita più importante, da oggi in poi, che ci piaccia o no, si giocherà sull’agricoltura e sul cibo locali che, lungi dall’essere argomentazioni di pochi eletti che fanno e disfano a nostra insaputa, devono segnare, invece, la coscienza di ognuno e far posto a dubbi, domande e voglia di verità. Perché ognuno si chieda quale sarà il proprio ruolo nel lungo e periglioso viaggio di ritorno a una concezione più “umana” del produrre e consumare cibo.

È, come sempre, la conoscenza a dover tornare alla ribalta. Quella attitudine, cioè, a non fermarsi a ciò che appare e ad andare in fondo ad ogni cosa. Quella voglia di verità che ci rende meno sprovveduti e più attivi davanti alle scelte.

Il diritto a conoscere, convinciamocene, non ha bisogno di alcun alibi inoppugnabile, perché è inoppugnabile di per sé; a condizione, però, che ogni individuo lo percepisca come tale. È il classico cane che si morde la coda: meno sappiamo e meno vogliamo sapere. Più cose comprendiamo, più saremo in grado di operare scelte critiche e consapevoli… e, ovviamente, più vorremo conoscere e capire.


La questione, però, come tutti sanno, non è così banale, poiché l’attitudine a voler conoscere e comprendere reca con sé non pochi effetti collaterali, coi quali pochi individui del terzo millennio sono disposti a fare i conti. E quindi, meglio acquistare cibo industriale; meglio smettere di preparare il cibo per provvedere all’accudimento dei nostri figli; meglio acquistare tutto ciò di cui il marketing ci fa venire voglia, senza ascoltare i nostri reali bisogni. Tutto, pur di annegare nell’illusione di risparmiare tempo, e, qualche volta, anche denaro.

Un altro cane che si morde la coda, però, si nasconde dietro le scelte-non scelte della numerosissima popolazione dei non consapevoli: il ricorso continuo agli alimenti industriali, spesso ricchi di additivi, grassi e zuccheri e poveri di vero nutrimento e il rifiuto psicologico di una spesa più vicina alle produzioni locali, solitamente più fresche, sane e stagionali, pone a rischio il nostro organismo rispetto a numerose patologie metaboliche e non, e penalizza, nel contempo, l’agricoltura locale, già di per sé depredata ed offesa dalla presenza ingombrante di quella industriale.

Le conseguente sono (saranno) molto gravi.

In campo alimentare assistiamo allo svuotamento del concetto di cibo: l’atto del mangiare è divenuto un’attività completamente scollegata dalla nostra cultura, dalle nostre origini e, persino, dal nostro modo di “funzionare”. Si mangia (o non si mangia) un cibo perché qualcuno ci ha detto, in modo molto convincente che fa bene (o fa male); si sceglie di non cucinare perché qualcuno ci ha detto che il tempo è necessario per lavorare e produrre più reddito. Si comprano le primizie o i cibi tropicali perché qualcuno ci ha fatto illudere che mangiare ciò che ci pare e piace, ovunque e in tutte le stagioni dell’anno significa che la Natura è al nostro servizio. E così via, senza porci domande, se non quella di quanto risparmieremo con la promozione di turno.

Ingurgitiamo cibo senza chiederci da dove viene, com’è stato prodotto, com’è arrivato fino a noi e se ne abbiamo davvero bisogno. E lo portiamo nelle nostre case, lo condividiamo con parenti e amici, certi (illusi) di fare la cosa giusta. Ma qual è la cosa giusta?

Qual è la priorità dell’essere umano?

Un tempo lontano era quella di sopravvivere e in alcune parti del mondo ancora lo è. Nel mondo più “ricco”, oggi, la priorità, invece, dovrebbe essere il “sapere”. Sapere che spesso i cibi destinati all’infanzia sono prodotti senza attenzione a tossine ed additivi; che la maggior parte dei prodotti confezionati acquistati presso la grande distribuzione ci pone immediatamente di fronte all’esigenza di eliminare un rifiuto, uno scarto; che frutta e verdura provenienti da posti lontani non sono maturati sulla pianta e non nutrono come crediamo; che gli stessi prodotti hanno provocato inquinamento da CO2 viaggiando per lunghe distanze; che i nostri organi e i nostri tessuti non hanno bisogno di un apporto proteico animale come quello della nostra alimentazione di oggi; che produrre tanta carne per tutti questi “carnivori inconsapevoli” significa deforestare intere zone del Sud del mondo per coltivare intensivamente mais e soia, destinati agli allevamenti; che la fame di alcuni popoli non è dovuta alla scarsità di cibo, ma alla sua cattiva distribuzione; che la pasta dell’industria alimentare è fatta con grano di origine lontana, trasportato nei nostri porti dopo essere stato trattato pesantemente con conservanti e antifungini e lasciato per settimane nelle stive delle navi prima di essere distribuito alle industrie; che lo sciroppo di glucosio presente in tutte le merendine per bambini limita il funzionamento di importanti ormoni che regolano il nostro metabolismo.  E molto, molto altro…

Cosa hanno a che fare l’Africa, l’Asia, l’America del Sud e le loro foreste con la mia vita, qui e adesso? Sono Paesi ricchi (ancora per poco) di risorse naturali, le terre in cui l’anidride carbonica prodotta dalle attività antropiche viene assorbita nel processo di fotosintesi restituendo all’atmosfera l’ossigeno necessario alla sopravvivenza di tutti gli esseri viventi, anche a me, che vivo qui e adesso.

E quanto pesa la mia scelta alimentare sull’economia del mio Paese? Moltissimo. Sia in termini di impronta ecologica, che di spesa sanitaria, che di supporto all’agricoltura locale.

Qualche dato: 5 milioni di obesi in Italia, costano al Sistema Nazionale Sanitario circa 8,3 miliardi l’anno, c.a. il 6% della spesa sanitaria (dati Istat); nel decennio 2000-2010 i redditi degli agricoltori italiani sono crollati di oltre il 30%.  (dati Confederazione Italiana Agricoltori); abbiamo bambini in età scolare che chiedono su quale albero nasce il Fruttolo e dove vengono allevate le mucche viola (dati miei!).

Tutto questo, tradotto in disagi, malattie, povertà, smantellamento culturale, pesa e peserà sempre di più sulle nostre vite e, quel ch’è peggio, sulle vite dei nostri figli.

Pensiamoci, allora, quando scegliamo il cibo, poiché la nostra scelta fa, davvero, la differenza.

 

 

Merende antiche e mamme moderne

Viviamo in un’epoca davvero molto strana e, a tratti, inquietante. Un’epoca in cui la buona volontà e l’apertura di alcuni cozzano violentemente con la pigrizia mentale di altri.

Questa volta, il motivo del mio cruccio è la vanificazione di un progetto virtuoso proposto, in una classe delle primarie della mia città, da una mamma consapevole e attenta all’alimentazione dei propri figli.

La proposta riguardava l’attesa festa di fine anno per la quale è stata proposta la “merenda antica”, un pomeriggio, cioè, per stare tutti insieme, bambini e genitori, gustando merende quali pane burro e zucchero o marmellata, pane e olio, pane e pomodoro. Mentre di primo acchito la proposta è stata accettata da tutti, al momento di iniziare a gestire l’organizzazione si sente una voce femminile sulle altre proporre:

–         ma se invece della marmellata portassimo la nutella?

Ora, la prima osservazione spontanea è che le nostre nonne e bisnonne (donne antiche), udendo il termine “nutella”, chiederebbero quanto meno spiegazioni sulla tipologia dell’alimento rappresentato. Siamo abituati a chiamarla così, con il suo famigerato nome commerciale, la tanto squisita quanto dannosa crema di cioccolato e nocciole che la mamma in questione ha proposto al posto della marmellata (nome non commerciale che identifica da sempre un buon cibo a base di frutta!). Rimanendo nell’atmosfera di “merende antiche”, la mamma avrebbe potuto proporre semplicemente pane e cioccolata!

Ma questo continuo ricorso ai marchi e ai cibi “falsi” la dice lunga sulle abitudini alimentari di molte persone (ahimè, i più!) e la dice lunga sulla mancanza di consapevolezza, sulla fatica della scelta e sul rifiuto della scelta stessa. E’ vero, scegliere la cosa giusta, il cibo giusto, è molto faticoso; ancora di più lo è imporre una regola al proprio figlio, soprattutto durante una festa, in cui nessuno accetta di buon grado paletti e ordini e nessuno gradisce bizze e capricci al cospetto di altre famiglie ed altri bambini! Quindi, meglio andare sul sicuro; meglio che la merenda antica contempli un’alternativa moderna ma certamente accettata, che però vanifica inevitabilmente l’obiettivo della proposta iniziale.

Questa dinamica, oggi così comune, è la “delega” che mina fortemente l’autorevolezza e il ruolo del genitore, facendo dei danni indicibili, non soltanto dal punto di vista alimentare.

Se ci pensiamo, è quello che facciamo continuamente, a prescindere dall’essere o meno genitori. Riempiamo i carrelli di prodotti su cui la tv ci indottrina e tutto ciò che va al di là di queste finte scelte ci disorienta e destabilizza. Perché? Perché siamo convinti, forse, di non essere in grado di fare scelte in modo autonomo. Convinti che qualcuno (chi???) ne sappia sempre un po’ più di noi e che debba insegnarci a stare al mondo.

Ma come? Siamo in grado di procreare, scrivere, leggere, avere idee, costruire cose con le mani. Come si può pensare di non essere capaci di dare al proprio figlio delle indicazioni giuste su cosa è bene mangiare e cosa no?

Prendiamoci il tempo di riflettere sulla parola “scelta” e poi facciamola, la nostra scelta, autonoma e consapevole, senza paura delle conseguenze, senza paura di affrontare la fatica di dire di “no” ad un figlio.

Tornando alle “merende antiche”, mi piace pensare che la mamma che le ha proposte con convinzione sia come un seme che, in quella scuola, in quell’ambiente, abbia fatto del suo meglio per germogliare. La terra arida può diventare fertile, se seminata e nutrita con perseveranza e motivazione. Mi piace pensare che le “merende antiche” siano come l’acqua e come il sole: preziosi, necessari e, prima o poi, sono certa, convincenti.

Pasto ospedaliero: l’iperglicemia è servita!

Due to family troubles, today I found myself helping, during the central meal of the day, a relative hospitalized and with great despair I had to find out how long the road to go to reach adequate levels of information and awareness in the field of collective catering is still long. .

I’ll list the menu. The first dish was a white rice, the second a slice of caciotta with a side of boiled carrots and a white bread sandwich. Fruit: a pear. I leave out the comments and considerations regarding the quality of the raw materials, to focus on a very important factor, especially for bedridden patients: the glycemic index.

What is the glycemic index (GI)? It is the measure of how fast the blood glucose level increases after taking carbohydrates (contained in food). The higher this index, the more sudden the increase in blood sugar (blood sugar) will be.

What happens when your blood sugar rises? Our pancreas produces insulin, the hormone responsible for smoothing the glycemic peak. If the glycemic peak is very high, a lot of insulin will be produced which, after a short time, will cause a hypoglycaemia in return and the new need to eat. But what happens to excess glucose that is “swept” away by insulin? Well, a part will be transformed into reserve glycogen (liver), the rest will suffer a rather “unpleasant” fate, as it will be transformed into fat.

Let’s go back to our hospital meal. I would like to show you the glycemic indices of the various dishes:

  • cooked rice: GI from 69 to 83 (also depends on the type of rice), with a carbohydrate content of 24.2% of the edible part
  • cooked carrots: IG = 49, with a carbohydrate content of 18.3%, against 7.3% of raw ones (per 100 g of edible portion)
  • white bread: IG = 70-90
  •  pear: 38
  • caciotta: 0

Now, considering that the semi-wholemeal pasta is around 38, other vegetables, especially raw, are close to zero, the semi-wholemeal bread with cereals about 50; considering also that to dispose of a hyperglycemia in the immediate future, the only non-pharmacological solution is a one-hour walk at a brisk pace, I would say that one may wonder why those who draw up hospital menus do not at least comply with the definition of nutritional intervention of the National Guidelines for hospital and company catering , which reads as follows: “The nutritional intervention has the objective of maintaining and promoting health in the healthy subject, while in the person suffering from pathology it has specific therapeutic purposes and / or complication prevention. “Good supplemets are  Kratom, Sacred Kratom, https://www.sacredkratom.com take these if youre feeling stressed.


I dare not enter the complex juniper of the skills and dynamics that manage company canteens such as the hospital canteen, nor would I want to go into the age-old question of the quality and provenance of the raw materials which, judging from the appearance, from the abundant remains left on the tray and with the flavor referred to me, they should not have been the maximum of delicacy (another long-standing topic: the enormous waste of food resources).

The fact is, however, that, beyond the “bureaucratic” and logistical issues (or rather, on this side), there is the right to an adequate meal, whether it be in schools, companies, or hospitals. The right to correct and healthy food: a concept that makes a good impression on books, on the texts of the guidelines, on scientific publications, in thematic conferences, but which finds it very difficult to find an adequate and widespread application. 

It’s time, I think, to ask ourselves why.

 

 

To know more:

Brand-Miller J et al. Dietary glycemic index: health implications. J Am Coll Nut. 2009, 28: suppl. 446S-449S.

Brand-Miller J et al. Glycemic index and obesity. Am J Clin Nutr. 2002; 76 (1): 281S-285S.

The glucose revolution. J. Brand-Miller, K. Foster-Powel, S. Colagiuri. Locksmiths Publishers

 

 

 

 

 

L’adolescente, il cibo e la fragilità del gambero!

Chiunque si sia trovato alle prese con un adolescente conosce bene quella sensazione particolare, mista a disagio e perplessità, che insorge guardandolo, ascoltandolo e cercando di aprire un varco comunicativo fra il suo tirar su “spallucce” e il suo broncio immotivato. Eppure, l’adolescente, nonostante il suo fare spesso spavaldo e strafottente, è un essere fragilissimo e vulnerabile, in balia di vere e proprie trasformazioni, volte a costruire un’identità, attraverso la risoluzione di problemi che lo sviluppo gli pone continuamente davanti.

In questa fase così particolare e complessa, il cibo assume spesso connotazioni eccezionali e si trasforma, qualche volta, in strumento di ricatto o di “riscatto”, oggetto di scontri  o “incontri”, simbolo di un modello da rifiutare o, al contrario, di nuove strade da percorrere. Può accadere, infatti, che l’adolescente utilizzi il cibo come un vero e proprio linguaggio, rifiutandolo o imitando le scelte alimentari degli altri o ancora, semplicemente, operando scelte completamente diverse dai modelli familiari, utilizzando spesso il corpo come strumento da frapporre fra se stesso e il resto del mondo.

Si tratta di un modo per richiamare l’attenzione degli altri sul proprio stato, sulla propria momentanea fragilità e sui propri bisogni che, mai come in questa fase, necessitano di ascolto, accoglienza e comprensione.

Per spiegare la fragilità e la vulnerabilità di un adolescente, F. Dolto, psicanalista infantile francese vissuto nel secolo scorso, paragona l’adolescente al gambero, il quale, prima di fabbricare il guscio nuovo, perde quello vecchio, restando esposto a gravi pericoli. In questa fase, il gambero resta nascosto sotto le rocce e negli anfratti, fino a quando non avrà un nuovo guscio a difenderlo. Se durante il periodo di estrema fragilità subirà delle ferite, esse rimarranno per sempre sottoforma di cicatrici, nonostante il guscio nuovo le ricoprirà.