Archivio della categoria: Provocazioni

L’impopolare, scomoda, cultura del cibo.

Di cosa parliamo esattamente quando citiamo il cibo nelle nostre conversazioni? Parliamo di diete, di rinunce o di scelte scellerate, e quanto mai assurde, che possano aiutarci a perdere peso (più che a farci stare meglio). Oppure, parliamo di ricette, o meglio, di trasmissioni televisive e di giornali che ce le propinano in grande quantità, facendoci venire la voglia di parlarne ancora e, subito dopo, quella di metterci a dieta.

Dipende anche dai luoghi, fateci caso. Dal parrucchiere si parla di linea, di cellulite e di altre amenità femminili (e non); mentre al supermercato, se si trova il tempo e il modo di farlo, si parla di offerte, prendi tre e paghi due, nuovi prodotti in promozione, vecchie marche che ci danno sicurezza. Una sicurezza vuota, però, costruita, appunto, solo sulla notorietà di quel marchio, piuttosto che di un altro.

Di cosa parliamo, quindi, quando parliamo di cibo? Di un enorme vuoto che, paradossalmente, viene riempito di ansie, miti, aspettative, paure, inconsapevolezze, superficialità. Il cibo è vuoto. Un grande contenitore che attende di essere colmato di tutto ciò che la nostra quotidianità ci pone davanti. Questa immagine non è affatto lusinghiera, se il quotidiano è un continuo condizionamento attraverso immagini di magrezze estreme e, allo stesso tempo, di cibarie finte ma assai succulente che vantano effetti da elisir di lunga vita.

Spostiamo, allora, per un attimo il nostro punto di vista e proviamo a capire il motivo di tanto vuoto e  della difficoltà di riempirlo di cose meno effimere e più utili all’essere umano.

Qualcuno ci ha fatto credere che si può fare a meno della cultura del cibo, cioè di quel variegato ed abbondante bagaglio fatto di sapienza tramandata, di gusto sviluppato negli anni, della certezza atavica dell’istinto, che ognuno di noi si porterebbe “dentro”. Qualcuno, con mezzi potenti ed infallibili, ci ha convinti, e ci riprova ogni giorno, che possiamo fare a meno di scegliere, dandoci l’impressione che tutto ciò di cui abbiamo bisogno sia sempre e ovunque a portata di mano: disponibile, abbondante, a buon prezzo e, soprattutto, salutare e indispensabile.

Questa, in breve, la tipologia di cose che riempie oggi il vuoto che la cultura del cibo ha lasciato.

È terrificante, se pensiamo quale significato ha per ognuno di noi l’atto del mangiare sin dalle primissime fasi dalla nostra esistenza.

La domanda quindi si trasforma e diventa: di cosa dovremmo parlare, allora, ogni volta che parliamo di cibo? Forse, dovremmo iniziare dall’imperativo che un tempo fu unico e imminente, cioè dalla sopravvivenza. E dovremmo spingerci più in là, riflettendo sulla qualità del cibo e della vita (i due concetti sono l’uno padre dell’altro). Dovremmo parlare di “provenienza” e “sicurezza”, lasciarci coinvolgere di nuovo dall’istinto e riabilitare il nostro gusto per i sapori semplici e naturali. Riflettere sulle scelte troppo facili e sulle loro conseguenze che partono da qui, ma si infrangono altrove con una potenza che neppure immaginiamo. Dovremmo, cioè, riempire di nuovo quell’enorme contenitore con una nuova, ma antica e preziosa, cultura del cibo.

Questo, però, pone ed impone altri interrogativi.

Perché è così difficile? Perché chi lavora per “costruire” questa cultura trova davanti a sé ostacoli insormontabili?

L’unica risposta che trovo plausibile è, purtroppo, anche la più grave e cioè che la cultura del cibo sia alquanto impopolare, fastidiosa, destabilizzante e pericolosa, per chi produce il cibo di cui si parla tanto oggi e tutto quello strascico mediatico derivato, che satura il vuoto di cui sopra (cibo spazzatura, diete, prodotti dimagranti, prodotti precotti, confezionati, fortificati, ecc.).

Che dire, poi, dei tentativi educativi e/o riabilitativi messi in atto dalle istituzioni? A me, che sono abituata ad agire e valutare nell’immediato le conseguenze di ciò che faccio, pare che fino a questo momento ci sia stato un grande dispendio di risorse pubbliche senza grandi risultati e pare, altresì, che le metodologie usate siano discutibili e i partners coinvolti non sempre in linea con gli obbiettivi da raggiungere.

Questa, attualmente la nostra pseudo-cultura del cibo (e, purtroppo, non solo): mangiare porcherie per poi mettersi a dieta, smettere di pensare e di scegliere per disimparare a ragionare con la propria testa, lasciarsi fagocitare da questo sistema consumistico estremo per generare rifiuti che poi dovremo smaltire in modo dispendioso, allontanarci dalla terra e dai frutti che produce per aprire scatolette che ci fanno risparmiare tempo, acquistare cibi finti che soddisfano solo il palato, arrecando un danno enorme alla salute e costringendoci a ricorrere a cure farmacologiche, prodotte da un sistema che si vanta di allungarci la vita . A che prezzo?

Questa è la domanda: quanto è alto il prezzo da pagare per questa comoda esistenza piena, zeppa, di scelte altrui e completamente vuota della preziosa cultura del cibo che ci identifichi e ci salvi dal vuoto?

Riflettiamo sui condizionamenti e cominciamo ad annotare, ogni giorno, le nostre scelte alimentari: accanto, due caselle: a) sto scegliendo io b) qualcun altro sta scegliendo per me.

Cominciamo da qui, dal coraggio di metterci in dubbio. Poiché, come qualcuno disse molto tempo fa, meglio agitarsi nel dubbio che riposare nell’errore.

Cultura del cibo ai tempi della Tisanoreica, ovvero come farsi del male in tanti facendo arricchire i pochi.

Una bustina dal colore dorato, o azzurro, a seconda che si tratti di una cena o di un dolce. Scioglierne in acqua il contenuto, senza nemmeno chiedersi di cosa è fatto. Sedersi a tavola (ma non è così strettamente necessario) contenti perchè quella tisana ci farà perdere peso e, pensate, senza neanche aver cucinato. Beh, il massimo, no?
Peccato che “mangiare” sia un’altra cosa. Peccato che le bustine siano costosissime e non siano “cibo”. Peccato che questa idea sia frutto della mente di un imprenditore figlio di erboristi (con tutto il rispetto), non un medico, non un biologo, non un biochimico. Peccato che la sua ambizione reale non sia quella di far stare bene la gente, ma di vendere il suo prodotto.
Ma, soprattutto, peccato che questa ennesima trovata imprenditoriale spazzi via un altra fetta di cultura del cibo e convinca migliaia di persone che è meglio un liofilizzato da sciogliere in acqua di una passeggiata a passo sostenuto in un parco, e di una vita attiva e ricca di scelte “responsabili” e “consapevoli”. Peccato che, e questo credetemi mi fa davvero male, migliaia di ragazzi e ragazzi in piena crisi di identità, magari con il pallino della magrezza estrema, subiscano il condizionamento di tali nefandezze.
Il cibo, come ripeto da anni (e mi sono quasi venuta a noia da me!) è parte di noi e della nostra storia, della nostra crescita come esseri umani. E’ uno strumento sociale e socializzante. Il cibo non è solo nutrimento, è cultura. Non siamo serbatoi, provette di polietilene, macchine. Siamo ancora Homo Sapiens. Veniamo dai raccoglitori nomadi, siamo onnivori bipedi, siamo capaci di sopravvivere a condizioni estreme, siamo capaci di grandi cose.
Perchè, allora, rinunciare al “Sapiens”??? Perchè non porsi domande invece di continuare a delegare la nostra salute e la nostra felicità al mercante di turno?
Sopravvissuti alle ere glaciali, possibile non riconoscere una cialtroneria?

L’agricoltura, cenerentola disconosciuta

La maggior parte delle persone conosce poco o nulla, oggi, dell’articolato e affascinante processo di produzione del cibo. E’ davvero curioso- non credete?- che l’umanità si nutra di prodotti provenienti dalla terra e sia, di fatto, così disinformata su questi argomenti. Eppure, fino a qualche decennio fa, questa ignoranza e questo disinteresse nei confronti della terra che produce il buon cibo erano inimmaginabili. Oggi, purtroppo, è raro, soprattutto nelle città, trovare un bambino che abbia visto un campo di grano, che sappia cos’è un aratro o che conosca l’avvicendarsi delle colture stagionali. Un sapere prezioso è andato perduto, lasciando spazio ad un crescente ed insulso consumismo che ha spazzato via la cultura del cibo. Eppure, nella storia dell’uomo, connotata da carestie, guerre e rivoluzioni, l’agricoltura e i suoi prodotti sono stati un denominatore costante e comune. Eppure, che ci piaccia o no, l’agricoltura è stata la prima importante attività socializzante.
Il primo anello di ogni catena alimentare è legato alla terra. Ogni ciclo vitale termina nella terra.
Quando andiamo in vacanza ci preoccupiamo del percorso che dovremo fare, tenendo bene a mente il luogo di partenza e quello di arrivo, con attenzione alle tappe intermedie. Ebbene, mi chiedo, perchè non ci poniamo domande sul nostro “viaggio” vitale? Perchè non abbiamo alcuna curiosità sulla nascita del nostro cibo?
La terra ci parla di noi e delle nostre “radici”, senza le quali … dove crediamo di andare?

L’amore e il cibo al tempo della pubblicità!

limone1

La parola “amore”, usata non molto tempo fa per definire addirittura un partito politico (il partito dell’amore!), campeggia oggi su tutte le home di siti aziendali che hanno a che fare con l’alimentazione, ci avete fatto caso? Sì, perchè l’amore è una cosa che interessa tutti, colpisce, ferisce, gratifica, emoziona, commuove; insomma, proprio come il cibo, accomuna e arricchisce di sentimenti e suggestioni. Questo non sfugge a chi si occupa di marketing e chi fa del cibo il proprio strumento di guadagno. L’industria alimentare, quella farmaceutica e le aziende che producono integratori e pasti sostitutivi lo hanno capito molto tempo fa ed hanno affilato le loro armi, fatte di spot, slogan, e presenze illustri che prestano la loro scienza patinata da salotto a questo succulento mercato. Evidentemente, penso, la fetta di torta è davvero grande e conveniente… forse si tratta di una torta intera, con tanto di farcitura!!!
La parola “amore”, dunque, affiancata alle figure di professori illustri e da immagini scelte con sapienza, fanno di certe discutibili pratiche dietetiche (Tisanoreica, Naturhouse, Ducan, ecc.) tendenze trainanti e convincenti, fregandosene altamente della letteratura scientifica seria e accreditata, della biochimica e della fisiologia.
Ebbene, vorrei, come al solito, lanciare una provocazione. Le varie house che con “amore” si prendono cura del nostro corpo e della nostra mente, proponendoci improbabili prodotti e percorsi dietetici, basati più sulle leggi di mercato che sulle conoscenze scientifiche, non aprirebbero le loro saracinesche ogni mattina se non ci fosse il cliente pronto a lasciarsi abbindolare dalla pozione magica di turno. Così come sugli scaffali del supermercato non vedremmo fruttoli, saccocci e pangocciole vari, se le famiglie consumassero latte, yogurt, carne e pane di buona qualità. Allora, questo tanto sbandierato “amore” vogliamo, una volta per tutte, decidere a chi rivolgerlo? A noi stessi, alla nostra famiglia, alla nostra Terra o alle aziende che speculano e giocano sulle nostre corde emotive?

Commento ispirato dalla lettura di questa pagina web

Il “Baby food”, ovvero come invitare l’industria alimentare al lauto banchetto dell’alimentazione per l’infanzia!

“Baby food” è il termine, a mio avviso terribile, con cui certi pediatri, oggi, definiscono gli alimenti industriali destinati all’alimentazione infantile. Non c’è da stupirsi, penserete, siamo nell’epoca in cui tutto viene etichettato, definito, distinto in categorie: junk fooddiet industry, etc etc.
Ebbene, mettendo da parte la perplessità relativa a certi modi discutibili di fare informazione e comunicazione di massa, cerchiamo di capire cosa si sta muovendo sotto certe dinamiche relative, appunto, all’alimentazione infantile (e non).
E’ trascorso pochissimo tempo dalla vergognosa guerra Plasmon- Barilla e l’altrettanto vergognosa campagna pubblicitaria promossa dalla FISM (Federazione Italiana Medici Pediatri) a vantaggio dei cibi industriali destinati all’infanzia. Le reazioni dei consumatori e le tante associazioni che li rappresentano , come ricorderete, sono state molte e decise.
Ma i paladini del Baby food  sono determinati, pare, a portare avanti la loro battaglia, basata sul dato (supportato da quali ricerche scientifiche?) che il cibo industriale per bambini sia non solo più buono e sano, ma anche più sicuro di quello naturale. Vale a dire che un passato di verdure fatto in casa, secondo questo modo di pensare, nutre meno e fornisce minori garanzie di sicurezza rispetto a quello chiuso in barattolino che compriamo al supermercato.

Leggo su un articolo apparso in questi giorni su un seguitissimo blog: “Anche Giuseppe Mele, presidente FIMP (Federazione Italiana Medici Pediatri) ha ribadito l’importanza già menzionata dall’On. Martini di istituire una Scuola di nutrizione per i pediatri innanzitutto per una promozione all’allattamento materno con un passaggio, dopo i primi sei mesi, ai “baby food” che rispondano a delle leggi ben precise. ” C’è di che preoccuparsi se si pensa che, a proposito di leggi, proprio nel nostro Parlamento, il 15 febbraio scorso, l’ormai famosa dieta tisanoreica è stata “promossa” a dieta elettiva per combattere l’epidemia di obesità in corso nel nostro Paese.

Leggo anche che la procura di Torino indaga su 106 casi di pubertà precoce registrati all’ospedale Regina Margherita. Il pm Raffaele Guariniello ha aperto, difatti, un fascicolo con l’ipotesi di reato di lesioni colpose, al momento contro ignoti, per vederci chiaro sulla diffusa pubertà precoce fra le bambine.

Fra le mie letture sul tema c’è anche un bel lavoro  pubblicato nel 2011 dal team pisano del Centro Endocrinologia Pediatrica, Dipartimento di Medicina Procreazione e Età Evolutiva dell’Università di Pisa, relativo alla presenza di una pericolosa tossina fungina dei suoi derivati metabolici nei latti artificiali per neonati e lattanti.

Voglio citare, perchè non si metta nel dimenticatoio, anche la recente campagna contro il prof. Franco Berrino  (direttore del Dipartimento di Medicina preventiva dell’Istituto dei Tumori), cui è stata affidata la gestione della ristorazione scolastica di Milano nell’ultimo anno scolastico. Berrino, per chi non lo sapesse, ha abolito bevande zuccherate e insaccati dai menu scolastici, ridotto drasticamente il consumo di carni  a favore dei legumi e della verdura di stagione, indicando la dieta mediterranea “vera” quale stile alimentare elettivo per prevenire numerose malattie cardio-vascolari, tumorali e degenerative.
Mi chiedo, a questo punto, cosa possa provare una mamma di fronte a letture di questo tipo e quale possa essere la sua frustrazione di fronte alla scelta più adeguata per il proprio bambino. L’argomento “alimentazione infantile” è ansiogeno di per sé per ogni genitore e credo, francamente, che almeno gli esperti dovrebbero evitare di creare confusione sui termini, sulle definizioni, sulla comunicazione di certi messaggi. Penso che ogni genitore abbia il sacrosanto diritto di informarsi e poi scegliere, a patto che l’informazione sia corretta, chiara e trasparente. E su questo trovo che ci sia ancora moltissima strada da fare.

Che non amo il cibo industriale è cosa nota, così come che non credo nella  perfetta buona fede di chi lo promuove a spada tratta. Credo fermamente, invece, nella consapevolezza e nel concetto che ogni scelta debba essere sensata e motivata, non esclusivamente basata sui dettami di una categoria, tanto meno della pubblicità.
Teniamo a mente, quando dobbiamo scegliere, che ormai da tempo il cibo è una “merce” e che quindi ha un mercato. Dove c’è un mercato, si sa, i mercanti fanno il loro mestiere!

 

 

 

Nessun reality sui bambini!

Non sono certa che i reality sull’obesità dei bambini siano una buona idea. Anzi, a dire il vero, li trovo deprimenti e controproducenti. Ho visto solo qualche breve stralcio e mi sono chiesta subito se e quanto valga la pena “mortificare” un bambino (e la sua famiglia) di fronte a una telecamera per fare quella che vorrebbero sembrasse educazione alimentare, ma che ha tutta, e solo, l’aria dello show! Non sono convinta che sia di qualche utilità, soprattutto per il fatto che ogni scena che di questi programmi entri nelle famiglie uscendo dal monitor altro non è che l’ennesimo spettacolino davanti al quale imbambolarsi, pressoché privi di opinioni e senso critico.
Penso, inoltre, a come debba sentirsi un bambino inquadrato mentre fa i capricci davanti a una pietanza non gradita o un genitore, “giudicato”, per definizione, riguardo alle proprie modalità di accudimento!

L’educazione alimentare è altro. Parte dalle esperienze-scoperte dei bambini e arriva alla consapevolezza. Fornisce nuove certezze ai genitori senza mortificare nessuno e, soprattutto, non è spettacolo, ma un lavoro rigoroso e ogni volta nuovo e vario. Vivere nell’epoca della comunicazione e dell’immagine non giustifica la tendenza a fare di tutto un reality. Il corpo e la salute dei bambini, attenzione, non possono diventare oggetto di “intrattenimento e godimento mediatico”!

Commento nato dalla lettura di http://www.ilfattoalimentare.it/programmi-televisivi-ragazzi-obesi-bocciati.html

Cercasi autorevolezza disperatamente!

L’autorevolezza, spesso erroneamente scambiata per autorità, è quella ormai rara qualità di un genitore che, con dolcezza, coerenza e determinazione riesce a fare da guida ai propri figli, indicando loro la strada, promuovendo la loro autosufficienza e nutrendo la loro autostima. Ciò a cui assistiamo oggi è, purtroppo, una sempre più diffusa assenza di regole e di coerenza, contestualmente ad un profondo senso di colpa genitoriale per ogni “no” timidamente sussurrato. A tavola, come in ogni ambito della vita quotidiana, la coerenza e la definizione dei ruoli sono fondamentali. L’alimentazione dei bambini è peggiorata enormemente nel’ultimo decennio e con essa la capacità di scegliere consapevolmente. Si assiste a una continua “delega educativa” dei genitori verso la tv, la pubblicità, le tendenze del momento e, soprattutto si fanno i conti, sempre di più, con il vuoto profondo lasciato dalla mancanza di autorevolezza e di attenzione, sempre più spesso colmato da cibo spazzatura e abitudini sedentarie.
Fare il genitore non vuol dire solo metterli al mondo, anche perchè “il mondo” è e sarà come siamo noi.

Idea nata dalla lettura di: http://www.ecodibergamo.it/stories/Cronaca/266118_un_bimbo_su_dieci__oversize_basta_bis_a_tavola_pi_severi/

I modelli, il cibo e la cattiva comunicazione.

Oggi, per arrabbiarmi un po’, prendo spunto dal racconto fattomi da un’amica, la cui bambina di otto anni è arrivata a casa con una novità: la maestra a scuola ha detto che alcuni cibi vanno evitati perché fanno ingrassare.
È bello, lo dico con convinzione, che una maestra si interessi all’educazione alimentare e che esprima la volontà di insegnare ai bambini la sana alimentazione. Ma, come in tutte le cose, ci sono mille modi per raggiungere un obiettivo e ritengo che questo modo sia il meno adeguato e all’argomento e al target cui è rivolto.
Se a un bambino insegniamo come accendere un fiammifero senza scottarsi, spiegandogli come tenerlo fra le dita, come orientare la fiamma e quando è il momento di soffiarvi sopra per spegnerlo, egli acquisirà una competenza, motivato da ciò che abbiamo trasferito, magari accompagnando il messaggio con l’esempio. Se, invece, al bambino viene detto che il fuoco brucia ed è pericoloso, quel bambino probabilmente non imparerà mai a gestire correttamente un fiammifero.
Vorrei che ognuno di noi riflettesse sul linguaggio. La nostra lingua è complessa e molto articolata: esistono numerose parole e altrettanti modi di dire la stessa cosa. Ma, facciamo un passo indietro e cerchiamo prima di avere le idee chiare su cosa vogliamo comunicare, con particolare attenzione al destinatario della nostra comunicazione.
Parlare di cibo a bambini della scuola primaria, così come agli adolescenti, implica una serie di competenze, responsabilità, abilità comunicative. Se è vero che il cibo non è solo nutrimento (non mi stancherò mai di dirlo e scriverlo!), ma anche e soprattutto strumento sociale, di condivisione e confronto con i pari, allora non può essere trattato come qualsiasi argomento, ma richiede delicatezza e attenzione. Se il corpo è il mezzo attraverso cui il bambino e l’adolescente si misurano con il resto del mondo, allora parlare senza cognizione di causa ai bambini di “grasso”, “ciccia”, “alimenti ingrassanti” o “dimagranti” è quantomeno rischioso, soprattutto se diamo un’occhiata a certi numeri: in Italia per ogni 1000 donne fra i 10 e i 25 anni si verificano tre casi di anoressia, dieci di bulimia, settanta di disturbi subclinici, cioè di difficile diagnosi; si registra, inoltre, una preoccupante anticipazione dell’età d’esordio in età prepubere (bambini sui 7 anni possono manifestare anoressia). In aumento anche i casi maschili adolescenziali (rappresentano un decimo di quelli femminili per l’anoressia nervosa) che tendono più al consumo per esercizio fisico che alla condotta alimentare restrittiva.
Sarebbe corretto, dunque, non avventurarsi in gineprai da cui poi è difficile uscire. L’educazione alimentare nelle scuole è fondamentale, ma va affrontata in modo serio e prudente, soprattutto in età pre-adolescenziale. Ritengo che gli educatori abbiano un ruolo importantissimo e che siano figure di riferimento su cui contare, a condizione, però, che i loro passi non siano azzardati e non si muovano su terreni a loro poco congeniali, in un’epoca, la nostra, in cui gli aggettivi “grasso” e “magro” assumono significati ben più complessi rispetto al passato.
Buona riflessione!

Spiegare il cibo ai bambini: adeguare l’educazione alimentare ai cambiamenti del mondo.

Ho l’ambizione di spiegare ai bambini cosa sta succedendo al nostro cibo. È un’ambizione motivata dalla certezza che bisogna fornire strumenti adeguati a chi il futuro se lo giocherà con fatica e facendo a meno di risorse a cui noi siamo abituati e che troppo spesso diamo per scontate.
Spiegare il cibo ai bambini non è solo fare educazione alimentare come siamo abituati a pensarla. Certo, sapere che gli alimenti si dividono in gruppi e che sono composti da principi nutritivi è importante. Come lo è, del resto, riconoscere una merenda finta (industriale) da una vera (casalinga)!
Tuttavia, sono convinta che il lavoro da fare sia più profondo, più ampio, più complesso e articolato e che richieda tempo, competenze, dedizione. Non è più sufficiente spiegare ai bambini cosa contiene il pane e quando e come va mangiato. È necessario raccontare loro cosa c’è dietro ciò che mangiano: la fatica di chi coltiva la terra e le difficoltà con cui oggi deve misurarsi. Ci sono modi, tempi e persone per questo, ma tutti possiamo fare la nostra parte, cercando il linguaggio adeguato, dando il buon esempio, non perdendo buone occasioni di confronto. Ricordiamoci che, come scrive J. Juul in uno dei suoi testi più famosi, il bambino è “competente”. Dobbiamo essere pronti a fidarci delle sue competenze e a valorizzarle.
Non è un’utopia insegnare ai bambini che le scelte di ogni giorno pesano sul futuro di tutti. È e deve restare un obiettivo comune a noi adulti.
Ho l’ambizione, dicevo, di spiegare ai bambini cosa sta succedendo al nostro cibo. E spero che sia un’ambizione contagiosa.

Il cibo “svuotato”!

Un antico aforisma recita “Il piacere dei banchetti non si deve misurare dalle ghiottonerie della mensa, ma dalla compagnia degli amici e dai loro discorsi.” Era Marco Tullio Cicerone che, nel 44 a.C., aveva già le idee ben chiare sulla relazione che il cibo intesse fra uomo e uomo.
Il cibo, dunque, non può essere semplice oggetto di interessi economici o semplice e puro edonismo. Esso deve, invece, assumere il valore supremo di qualcosa da difendere; una valida ragione, cioè, per tutelare e migliorare la qualità della vita, poiché da esso stesso, dipende la nostra vita.
Leggendo articoli come quello che vi propongo, non posso che provare rabbia (tanto per cambiare!) e scoramento (che dura, per fortuna, solo un attimo!) nel constatare ancora una volta a quale ignobile destino il nostro cibo e l’atto del mangiare siano destinati in questa società.
Se è vero che ognuno di noi associa il cibo a valori simbolici, culturali, creativi ed affettivi mi chiedo a cosa possa servirci la miriade di programmi televisivi di cui pullulano i palinsesti, pieni di personaggi, lontani mille miglia dalla cultura del cibo, che scucchiaiano e sforchettano all’insegna del gran gourmet! Soubrettes, attori, semplici cittadini chiamati a misurarsi fra i fornelli, per infarcire di ricette, consigli e trucchi culinari le nostre menti “affamate” di … di cosa, se siamo il Paese in cui si vendono un numero smisurato di libri di ricette ma non cucina più nessuno?
Mi vengono molte risposte in proposito, ma tutte con una leggera vena di perfidia ed ironia. Soprassediamo, quindi.
Analizziamo, invece, il fenomeno mediatico: il cibo fa ascolti. Parecchi ascolti. Quindi è diventato “merce”. Questa centralità così morbosa con cui vengono connotati l’atto del cucinare e del mangiare fa a cazzotti, peraltro, con i modelli proposti dalla stessa “scatola magica”, inneggianti alla magrezza estrema, alla perfezione e alla bellezza a tutti i costi. Allora, mi chiedo, come ci vogliono? Come ci vuole questo mercato? Forse, mi rispondo, non c’è una logica “umana”, biologica, sensata, razionale. Forse è solo e soltanto “mercato”.
C’è molto da riflettere su quanto vuoto è stato insufflato nella parola “cibo” e poco, anzi niente, su cosa fare davanti a programmi televisivi di quel tipo, non credete?

Idea nata dalla seguente lettura: http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/01/31/news/l_invasione_dell_ultra-cibo-29108923/