Il latte della mamma, buon cibo della vita

(Pubblicato su Salute Donna)

Scrivere di nutrizione infantile è per me, che ho scelto di lavorare coi bambini, sempre una grande gioia. Ma scrivere di allattamento è senza dubbio un’emozione che si rinnova, nel ricordo della mia esperienza di madre e nella gratificazione professionale quotidiana.

L’allattamento, sia esso naturale o artificiale, rappresenta un momento decisamente magico che connota in modo irreversibile e profondo il rapporto tra il bambino e la sua nutrice.

Tutti sanno che il latte materno è l’alimento ideale per il bambino durante i primissimi anni di vita e che, dal sesto-settimo mese in poi, esso accompagna lo svezzamento, continuando ad apportare fattori protettivi, oltre che relazionali e psicologici.

La situazione italiana relativamente all’allattamento naturale mette in luce che, nonostante i bambini allattati dalla mamma nei primi mesi siano in notevole aumento, il loro numero è ancora inferiore agli standard ottimali. Dato, questo, che deve farci riflettere sulla “cultura” dell’allattamento naturale e sulle strategie che enti e strutture preposti devono mettere sul campo per guidare le madri ed aiutarle a scegliere, in serenità e consapevolezza, il tipo di allattamento da proporre al proprio bambino.

Il latte materno contiene un’ampia gamma di nutrienti e componenti, variabili sia intra- che inter-individualmente e tra popolazioni che lo rendono assolutamente unico. Ogni madre produce, peraltro, il latte adeguato al suo bambino e la percentuale di madri che non possono allattare (per gravi malattie o per insufficienza di latte) è davvero molto bassa. I vantaggi dell’allattamento, com’è noto da tempo, sono molti: dalla protezione anticorpale alla quantità e qualità di nutrienti adeguata al neonato. Vi è poi una caratteristica fondamentale che oggi, nell’era della Globesity, si rivela quanto mai preziosa: l’effetto protettivo nei confronti del sovrappeso e dell’obesità. Molti studi evidenziano, infatti, l’associazione fra l’allattamento naturale prolungato e la crescita adeguata ed equilibrata del bambino. Questo effetto così importante sembra essere legato alla quantità di proteine che nel latte materno è decisamente inferiore (circa 3,5 volte più bassa)  rispetto al latte vaccino. Un apporto eccessivo di proteine nei primi mesi di vita (latti formulati eccessivamente proteici e/o svezzamento precoce), infatti, provocherebbe un aumento di fattori di crescita ad azione insulino-simile che spingerebbero verso un’eccessiva crescita ed aumento ponderale. Il latte materno, inoltre, contiene sostanze ad azione ormonale, quali la leptina e la grelina, che consentono al neonato di autoregolare il rapporto tra fame e sazietà.

Ma nel caso in cui l’allattamento al seno non sia possibile o non venga, in modo del tutto legittimo, scelto dalla mamma, è necessario utilizzare formule per l’infanzia e posticipare comunque l’introduzione di latte vaccino all’anno di età.

I latti formulati sono costituiti da una base di partenza rappresentata dal latte vaccino, che viene profondamente modificato. Le modificazioni riguardano soprattutto la quantità delle proteine, dei sali minerali, degli acidi grassi e degli zuccheri. In questo modo, i latti ottenuti sono in grado di fornire al bambino tutto ciò di cui ha bisogno senza appesantire il suo metabolismo. Gli sviluppi recenti sulla formulazione hanno come obiettivo quello di riprodurre gli effetti funzionali del latte materno, diversamente dalle primissime formulazioni, che miravano ad emularne soltanto la composizione chimica. Ad esempio, oggi, oltre ai latti speciali come quelli anti reflusso o gli idrolisati che permettono un adeguato intervento nutrizionale in caso di alcune patologie, esistono latti formulati contenenti un profilo amminoacidico più simile a quello del latte materno, oltre che la giusta composizione di acidi grassi polinsaturi a lunga catena, importantissimi per lo sviluppo del sistema nervoso, e a probiotici e prebiotici, fondamentali per il mantenimento della flora batterica intestinale.

L’industria, insomma, viene sicuramente incontro alle mamme e ai loro bambini, ma, come abbiamo visto, si rifà continuamente alla natura e a ciò che essa, con una magica alchimia, produce, perpetua e preserva.

L’alimentazione spiegata ai più giovani: quali strategie?

Oggi l’educazione alimentare è uno degli argomenti più gettonati. Essa è ritenuta necessaria per far fronte all’epidemia di obesità (Globesity), importante per strutturare buone abitudini nutrizionali nei bambini e negli adolescenti, insostituibile per imparare a leggere le etichette e a fare scelte alimentari consapevoli. Eppure, in reltà, questa disciplina così utile ed interessante viene spesso affrontata in modo frammentario e contraddittorio.

Alcuni paradossi ed incongruenze la connotano. La chiarezza dei messaggi educativi relativi alla necessità di consumare pochi grassi e poco sale, di limitare l’introito di carne ed incrementare quello di vegetali, di preferire cibi “veri”, stagionali e territoriali viene spesso offuscata  e confusa dalla presenza contestuale di messaggi contraddittori ai quali bambini e ragazzi sono sottoposti. Qualche esempio? La presenza di distributori di snack preconfezionati a scuola e nelle palestre, i messaggi pubblicitari che raccontano mezze verità o vere e proprie bugie, la distribuzione nelle scuole di frutta confezionata, cosparsa di antiossidanti e proveniente da lontano, eccetera.

Riflettiamo un attimo: cosa manca? Qual è la vera criticità? Dove sta il bug del sistema?

Probabilmente manca la cosiddetta “visione d’insieme”, ovvero la possibilità di vedere e percepire l’essere umano come parte integrante di un sistema alimentare globale. Aiuterebbe molto, infatti, porre l’attenzione sul concetto di interdipendenza dell’alimentazione umana con tutti i sistemi naturali. Forse questa strategia, messa in atto a scuola, a casa, nei comuni luoghi in cui si fa “educazione”, potrebbe aiutare a mettere a fuoco il vero bug del sistema e rendere l’educazione alimentare più efficace. Così, le domande a cui rispondere non sarebbero solo quelle relative alla salute dell’uomo e agli alimenti più o meno protettivi, ma contemplerebbero una visione più globale e verterebbero sulla possibilità di un’alimentazione sostenibile per tutto il pianeta, essere umano compreso.

Un bel libro di Lang e Heasman, pubblicato nel 2004 (http://aof.revues.org/index237.html) sostiene l’importanza di riconoscere le mutue dipendenze, le relazioni simbiotiche e le forme sottili di manipolazione in campo alimentare e consumistico. Questa prospettiva, che pone al centro dell’educazione e della consapevolezza la salute dell’uomo e dell’ambiente tutto, contrappone dunque alla visione prettamente “biologica” quella “olistica” più garante della salvaguardia della diversità ecologica.

Sarebbe bello se nelle nostre famiglie, nelle nostre scuole e nelle nostre palestre si potesse ricostruire il legame fra essere umano e ambiente, sia sul piano cognitivo che su quello etico. Sono convinta, infatti, che insegnare con convinzione e coerenza ai nostri bambini e ai nostri adolescenti che tutto ciò che mangiamo proviene da altri esseri viventi e diviene, una volta mangiato, parte di noi li aiuterebbe a rispettare gli alimenti e le loro fonti, a cibarsene con parsimonia e nel modo più adeguato a preservare lo stato di salute. Sono altresì certa che spiegare loro che nutrirsi significa relazionarsi e condividere, che l’agricoltura è parte irrinunciabile del nostro sistema sociale e le tradizioni un patrimonio da preservare, li aiuterebbe a crescere più consapevoli delle loro origini e più rispettosi dell’ambiente che un giorno sarà la loro casa.

Gusto, svezzamento e neofobie. Il ruolo dell’esperienza e dell’esempio.

Quando un bambino comincia a camminare, generalmente, sviluppa una resistenza ai nuovi alimenti. Gli esperti sottolinenano che si tratta di una fase normale durante la quale il bambino non vuole, e non può, rinunciare alle sue certezze, perchè queste lo rendono più forte e lo incoraggiano a nuove esperienze. Il rifiuto di cibi nuovi e sconosciuti è chiamato “neofobia” ed è un meccanismo innato e collaudato per milioni di anni, che in passato probabilmente ha permesso la sopravvivenza nei primissimi ani di vita.

Oggi, purtroppo, le neofobie riguardano più del 20% dei bambini e si prolungano negli anni successivi della vita infantile, spesso cronicizzandosi e portando ad una alimentazione poco variata e carente. Il ruolo della famiglia e della società è fondamentale nel fornire al bambino gli strumenti per superare le neofobie.Pensate: il rifiuto di un alimento è inversamente proporzionale al numero delle offerte di quello stesso alimento. Un lungo e paziente lavoro, fatto di tentativi e buon esempio, può dare ottimi risultati: per ottenere l’adattamento e l’accettazione di un alimento inizialmente respinto sono necessarie, infatti, almeno 7-8 esposizioni prima che il bambino accetti quell’alimento e provi ad assaggiarlo.
L’esposizione precoce ad una grande varietà di sapori è, dunque, la strada maestra  per promuovere nel bambino il desiderio dell’assaggio, soprattutto dei cibi generalmente meno graditi, quali frutta e verdura.
Lo svezzamento, in quest’ottica, fornisce un’ottima occasione di educazione al gusto, che l’industria alimentare, votata al profitto e a scelte globali, tende a scoraggiare. Le esperienze precoci  della fase di svezzamento iniziano a stabilire un percorso di scelte alimentari positive (o negative) che continuano a persistere nel tempo.
Il ruolo della famiglia è fondamentale, in quanto può fornire la strategia chiave, durante la primissima infanzia, per “educare” il bambino a gusti variati e ricchi, attraverso l’esempio, l’offerta ripetuta dei cibi sani, senza ricorrere a gratificazioni inadeguate con cibi troppo sapidi e scadenti dal punto di vista nutrizionale, né ad espedienti “esterni” quali giochi da portare a tavola o, peggio ancora, all’effetto ipnotico della tv.
Se prendiamo coscienza dei meccanismi educativi virtuosi, di cui siamo atavicamente portatori, possiamo davvero fare qualcosa di utile ed importante per rendere i nostri figli “onnivori”, evitando loro pericolose restrizioni alimentari.

Per non “mangiarci” il futuro…

Le generazioni future, con ogni probabilità, si troveranno a pagare l’attuale amministrazione, piuttosto sconsiderata, delle risorse della terra. Ognuno di noi può fare moltissimo per contribuire a un ambiente più sano, alla salute e al benessere nostri e delle altre popolazioni.
E’ assolutamente necessario dare alle famiglie un’informazione puntuale sui temi che riguardano il cibo,  l’ambiente e il futuro del mondo, e proporre azioni educative anche piccole, ma con contenuti concreti da diffondere a tappeto sul territorio. L’informazione-educazione dovrebbe iniziare dal concetto di “cibo”, a tutti noi molto caro.
Una parte della popolazione del mondo ha fame, mentre nei paesi a sviluppo avanzato la disponibilità di cibo è grande, ed è connotata da sprechi e ricadute sulla salute come l’obesità, il diabete, la sindrome metabolica, i disturbi del comportamento alimentare. Negli ultimi decenni il nostro modo di mangiare si è drasticamente trasformato: i ritmi di vita e le scelte di mercato ci inducono a comportamenti che spesso non vanno d’accordo né con la sostenibilità dell’ambiente, tanto meno con la nostra salute.
Nei paesi sviluppati come il nostro, il cibo abbondantemente disponibile viene prodotto per lo più da coltivazioni intensive, con un impatto ambientale ormai non più sostenibile. Questo tipo di produzione, fortemente incoraggiata dalla maggior parte dei governi, usa grandi quantità di pesticidi, fertilizzanti e specie vegetali OGM, provocando di fatto il progressivo annullamento della biodiversità. Nel contempo altri paesi, per lo più poveri, non riescono ad esportare i loro prodotti ad un prezzo equo, né a produrre a sufficienza per sé.
Una risposta a questo andazzo poco lusinghiero potrebbe essere l’agricoltura biologica, che inquina meno, ma ha una resa minore di quella convenzionale. D’altra parte, viene sostenuto ormai da tempo che riducendo i consumi di alimenti di origine animale, si ridurrebbe la necessità di produrre mangimi in modo intensivo (per lo più a base di mais e soia). Gran parte dei terreni agricoli sono attualmente coltivati a cereali e il 40% della produzione mondiale di questi cereali è destinato a diventare mangime per gli animali che, a loro volta, sono allevati per produrre carne, latte e uova. La riduzione dell’allevamento intensivo fornirebbe, dunque, “spazio agricolo” che potrebbe essere coltivato biologicamente, con produzione di frutta e verdure di qualità.
Un’alimentazione meno ricca di proteine animali sarebbe, quindi, più sana per noi (molte malattie metaboliche sono peggiorate e, a volte, causate da un eccessivo consumo di carne) e per l’ambiente.

Come si può operare il cambiamento? Cosa possiamo fare noi in concreto nelle nostre famiglie?

Qualche suggerimento:

  • abituare fin da piccoli i nostri figli a mangiare molti cibi di origine vegetale, con particolare attenzione alle coltivazioni stagionali e locali;
  • preparare i pasti tenendo presente i componenti principali degli alimenti e accostarli tra loro facendo attenzione al gusto, ai colori, ma anche alla propria cultura e alle proprie tradizioni: poche proteine animali, molti legumi, molta verdura e frutta, pochi grassi animali, meglio i condimenti vegetali (dieta mediterranea);
  • acquistare verdure coltivate all’aperto, cresciute grazie all’energia del sole, e non in serra (le serre vanno scaldate e quindi inquinano);
  • scegliere prodotti territoriali, che devono essere trasportati solo per brevi tratti (filiera corta e sostegno alle le aziende locali);
  • scegliere cibi da produzione biologica o biodinamica seria che rispetta i cicli naturali e non utilizza concimi o pesticidi sintetizzati chimicamente. Cioè preferire prodotti di alta qualità, coltivati «secondo natura», che garantiscono fertilità del suolo a lungo termine e allevamenti rispettosi degli animali;
  • acquistare prodotti del commercio equo-solidale, contribuendo ad assicurare ai produttori dei paesi più poveri del mondo un reddito sufficiente per vivere e produrre nel rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori;
  • mangiare frutta e verdura in abbondanza: assicurano sostanze nutritive essenziali all’organismo, inquinano meno le acque e la loro produzione grava meno sul clima rispetto ai prodotti animali;
  • consumare animali che possono pascolare in libertà: sono più sani rispetto a quelli che trascorrono gran parte della loro vita in stalla o in batteria;
  • scegliere il pesce del luogo. Lo sfruttamento ittico è eccessivo per molte specie marine, il cui habitat è minacciato da metodi di pesca troppo aggressivi. L’allevamento non rappresenta un’alternativa valida né dal punto di vista nutrizionale che ambientale.
  • scegliere i cibi in cui c’è un minore  imballaggio o che hanno contenitori riciclabili, per evitare ulteriori fonti di contaminazione;
  • preparare pietanze di “recupero” (polpettone, zuppa, ecc) per non sprecare il cibo avanzato.

Influenza della dieta materna durante la gravidanza e l’allattamento sul programming metabolico del bambino

Molti studi dimostrano il ruolo di programming che ha la nutrizione della madre nei confronti del metabolismo del feto1.
Obiettivo dello studio prospettico randomizzato e controllato condotto dal Dipartimento di pediatria dell’ospedale universitario di Turku, in Finlandia, era valutare l’impatto della dieta materna e del counselling alimentare, durante la gravidanza e l’allattamento, sullo stato metabolico del neonato. Al primo trimestre di gravidanza, 256 donne sono state suddivise in modo random in tre gruppi: uno, il gruppo di controllo, ha  ricevuto il placebo; negli altri due gruppi è stato somministrato il counselling alimentare (dieta/probiotici e dieta/placebo). Il counselling, con randomizzazione in doppio cieco di probiotici (Lactobacillus rhamnosus GG e Bifidobacterium lactis) o placebo, era mirato a ridurre l’eccessivo consumo di grassi saturi e ad aumentare invece l’introito di fibre.
La dieta della madre è stata valutata più volte durante la gravidanza e dopo il parto per mezzo di diari alimentari compilati ogni tre giorni.
A 194 bambini sani all’età di 6 mesi sono stati misurati alcuni marcatori metabolici: la proinsulina sierica split 32-332 e quella intatta, il rapporto tra leptina e adiponectina, lo spessore del grasso sottocutaneo (con p licomteria) e il girovita; gli alti livelli di tali parametri sono stati considerati rappresentativi di uno stato metabolico alterato.
La percentuale di neonati con un alto dosaggio di proinsulina split 32-33 era significativamente inferiore nel gruppo delle donne in counselling dietetico con probiotici (n = 6/62, 9,7%) o placebo (n = 7/69, 10.1%) rispetto al gruppo di controllo/placebo (n = 17/63, 27,0%). Nei neonati, alti livelli di proinsulina risultavano inoltre associati ad un maggiore spessore della plica cutanea e a superiori misure del giro-vita e del rapporto
leptina/adiponectina (P <0,05).
Per quanto riguarda la dieta della madre durante la gravidanza, i terzili più alti e più bassi relativi al consumo di grassi erano associati ad un aumento del rischio di elevati livelli di proinsulina split nel bambino, mentre quelli relativi all’introito di grassi saturi erano associati all’aumento della circonferenza della vita del bambino. Inoltre, i neonati allattati al seno hanno mostrato una riduzione del rischio di elevati livelli di proinsulina split e del rapporto leptina/adiponectina rispetto ai neonati nutriti con latte artificiale.
I ricercatori hanno concluso che le modifiche positive alla dieta materna durante la gravidanza e nel periodo di allattamento al seno possono apportare benefici per la salute metabolica del bambino. Un alto livello di proinsulina split, che riflette avverse condizioni metaboliche durante l’infanzia, può essere abbassato o tenuto sotto controllo grazie a un precoce ed oculato counselling alimentare.

1“Fetal original hypotesis” di Barker, secondo la quale le alterazioni nella nutrizione e nell’equilibrio endocrino durante l’epoca fetale determinerebbero un adattamento dello sviluppo che modificherebbe in maniera permanente la struttura, la fisiologia e il metabolismo dell’individuo, predisponendolo ad alterazioni cardiovascolari, metaboliche ed endocrine in età adulta.

2 Sostanze strutturalmente simili all’insulina.

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Per chi volesse approfondire l’argomento della “Fetal original hypotesis” consiglio la lettura dei seguenti lavori:

  • Barker JDP Mothers, babies and health in later life Edimburg: Harcourt Brace & Co. Ldt 1998
  • Barker JDP, Fetal origins of coronary heart disease. BMJ 311: 17-174, 1995
  • Cachera R. et al. Adiposity rebound in children: a simple indicator for predicting obesity. Am J Nutr 1984; 39: 129-35

Puoi leggere questo articolo anche su Piano del Cibo

La scelta alimentare: geni, sensi e condizionamenti

Alla base delle nostre scelte alimentari vi sono moltissimi fattori che le influenzano in modo vario ma profondo. Si tratta di fattori sensoriali, biologici, socio-culturali e di condizionamento.
La percezione sensoriale dei cibi svolge un ruolo fondamentale. La maggior parte dei sensi è coinvolta in più fasi del consumo alimentare. Per esempio, l’aspetto di un determinato cibo può essere utilizzato dai nostri sensi per dedurne la freschezza o il grado di maturazione; allo stesso modo, tatto e vista hanno un ruolo fondamentale per valutarne la consistenza. Indubbiamente, però, i sensi più importanti nel determinare una scelta alimentare sono il gusto e l’olfatto. Gli odori, infatti, possono essere percepiti sia prima che dopo aver introdotto in bocca un dato alimento. Insieme al gusto, inoltre, l’olfatto contribuisce a produrre la percezione del sapore complessivo di un dato cibo. Come sappiamo, il gusto viene percepito tramite le papille gustative che ricoprono la lingua. Esso consiste nella percezione derivante dalle molecole di cui è composto l’alimento, una volta masticato ed amalgamato dalla saliva. Gli studiosi convengono sull’esistenza di quattro tipi di gusto: il dolce, il salato, l’aspro e l’amaro. Ognuno di noi sa perfettamente quali sono i suoi cibi preferiti e quali, invece, quelli che non gradisce.
Ma le preferenze puramente sensoriali di un cibo si basano sulle esperienze alimentari o sono geneticamente determinate? Gli studi effettuati al riguardo mostrano una innata preferenza per le sostanze dal sapore dolce e, al contrario, un rifiuto precocissimo del sapore amaro. Questo fenomeno, tipico della primissima infanzia, milioni di anni fa ha avuto probabilmente una funzione evolutiva, privilegiando cibi ricchi di zuccheri (fonti energetiche) e sollecitando il rifiuto di sostanze amare, potenzialmente tossiche o non commestibili.
Il rapporto fra sensi e cibo è senza dubbio un argomento interessante, soprattutto oggi, in un’epoca in cui c’è una grande attenzione alla scelta alimentare. Diversi studi suggeriscono che i fattori sensoriali sono ancora cruciali nel determinare la scelta di un cibo, ma la relazione è più complessa ed articolata, a causa di molte altre influenze, quali gli effetti fisiologici o avversi degli alimenti e i fattori psicosociali e culturali. Vorrei soffermarmi in modo particolare sugli ultimi, in quanto convinta che oggi pesino moltissimo sulle scelte alimentari di adulti e bambini. Oggi più che mai, infatti, scegliamo il cibo da mettere a tavola lasciandoci condizionare spesso dalle “credenze”, più o meno corrette, sulle conseguenze provocate da quel determinato alimento sulla nostra salute. Questo tipo di condizionamento sta alla base del modo in cui molti prodotti alimentari vengono pubblicizzati, attraverso immagini e slogan che ne enfatizzano l’effetto positivo sulla salute di chi li acquista. Per non parlare del costante condizionamento del gusto attuato dall’utilizzo smodato, e spesso superfluo, di edulcoranti ed esaltatori di sapidità, che annullano le differenze ed omologano i sapori.
Uno degli effetti indiretti, ma non meno importanti, delle influenze psicosociali relative alle scelte alimentari è la neofobia alimentare, cioè l’evitamento dei cibi nuovi, che spesso rappresenta un grosso problema per molti genitori e può indurre a diete poco variate o, addirittura, monotematiche. I genitori, infatti, influenzano in modo determinante i comportamenti alimentari dei figli, attraverso le loro scelte, le conoscenze, le decisioni, il ruolo, il modello educativo, il comportamento a tavola. È stato dimostrato, ad esempio, che l’esposizione frequente ad un determinato cibo e la sua manipolazione, ne aumenta la preferenza. Un altro dato certo è che gli atteggiamenti verso certi cibi sono appresi tramite l’imitazione: i bambini assaggiano più facilmente un cibo “non familiare” se questo viene precedentemente assaggiato da un adulto presente, in particolare la madre.
L’influenza psicosociale sulle scelte alimentari produce inoltre comportamenti che, a loro volta, hanno implicazioni importantissime. Non dimentichiamo, ad esempio, il valore dell’accettazione: è noto, infatti, che attraverso la scelta di un cibo che tutti assaggiano, il bambino si sente parte di qualcosa: una famiglia, una squadra, un gruppo.
In definitiva, sembra che, sebbene i fattori genetici e i processi fisiologici siano fondamentali per la scelta del cibo, il loro impatto sul comportamento alimentare sia oggi mediato dai fattori psicosociali dai quali è impossibile, o quantomeno difficile, prescindere.
A questo punto quindi dovremmo chiederci come volgere a nostro vantaggio e a vantaggio dei nostri figli queste importanti conoscenze. Senza dubbio dovremmo tornare a recuperare il tempo e il rispetto del gusto, cioè ricominciare ad assaporare ed apprezzare il gusto degli alimenti semplici, per “recuperare” i sensi che un tempo erano alla base della nostra scelta. La rieducazione al gusto permette di sganciarci dal condizionamento della pubblicità e fornisce un ottimo strumento educativo per insegnare ai bambini a diversificare, riconoscere, apprezzare. Noi adulti, inoltre, faremmo bene a ricordare che il rapporto del bambino con il cibo è delicato e complesso e che implica quasi sempre i concetti di “sicurezza”, “autostima”, “accettazione”, oltre che nutrimento, crescita e qualità alimentare. Insomma, nel relazionarci a nutrizione, genetica, sensi e influenze psicosociali dovremmo sempre tener presente che il cibo ci lega, non ci divide; esso non è strumento, ma collante; non è arma, ma vincolo. E’ il legame fra chi nutre e chi è nutrito, dove “nutrire” non è solo “dare da mangiare”, ma aiutare diventare adulti sani ed equilibrati.

EVENTO CORRELATO

Stai fermo e mangia, ovvero il cibo, i bambini e l’era del nutrizionismo.

Quarant’anni fa molti di noi giocavano all’aperto. Genitori e nonni li controllavano ogni tanto da un terrazzo o da un portone e all’ora di cena gridavano a gran voce di tornare a casa. Malvolentieri e con il broncio, abbandonavano i loro giochi movimentati e, dando appuntamento ai compagni per l’indomani, tornavano, sporchi e a volte anche ammaccati, per lavarsi e sedersi a tavola con tutta la famiglia. “Lavati le mani, siediti al tuo posto, stai fermo e mangia!”. Questa era pressappoco la frase di routine che si sentiva intimare prima che il pasto cominciasse. Nelle famiglie credenti si ringraziava Iddio per il cibo disponibile e, più o meno in ogni casa, si onorava la convivialità e il pasto (mi riferisco a quello serale) raccontando la propria giornata, ascoltando gli altri, programmando la giornata successiva. Poi alla fine, quando papà e mamma davano il permesso, ci si alzava da tavola e ci si trastullava con libri o televisione fino all’ora della nanna.
Oggi le cose sono (ahinoi!) molto diverse. Non si può più giocare all’aperto per ore, se non in rare eccezioni nelle quali nonni e genitori controllano a vista i bambini; si corre e ci si sporca meno, i bambini hanno spazi più ridotti, per il gioco e per la fantasia. Spesso trascorrono il pomeriggio davanti alla televisione o al videogioco di turno, sgranocchiando patatine e snack vari, accompagnati da fiumi di tè alla pesca o coca-cola. E quando il pasto è pronto (quasi sempre un piatto veloce da mettere in tavola alla svelta), arrivano a tavola un po’ per volta, senza appetito, né voglia di parlare. Mamma-tv li pasce di spot pubblicitari sulle nuove merendine in commercio e sui gameboy più sofisticati fino a quando, senza aver ringraziato, né raccontato, né ascoltato nessuno, si alzano per andare a sdraiarsi ancora una volta sul divano del salotto o a chiudersi in camera, per trascorrere ore davanti al computer. Sembra terrificante, vero?
Certo, il divario fra il nostro modo di essere figli e il loro è davvero mostruoso. L’unica cosa che non è cambiata forse è la frase “stai fermo e mangia!”, che, seppure in modo tacito, viene trasmessa ogni volta che lasciamo un bambino da solo con le sue ore pomeridiane e serali da riempire.
Eppure questa è l’era dell’informazione e della conoscenza: sappiamo che un bambino su tre è in sovrappeso o obeso, che l’11% della popolazione infantile salta la colazione e che circa il 28% non la fa in modo adeguato. Conosciamo le conseguenze delle abitudini alimentari sbagliate e della sedentarietà. Molti di noi si sanno districare abbastanza bene fra etichette e reclames. Insomma viviamo in un’era in cui non è possibile non sapere, non apprendere, non essere informati sui rischi ai quali espone lo stile di vita dei nostri ragazzi.
Innumerevoli iniziative, inoltre, sono state messe in atto dal Ministero della Salute, che si è fatto carico di progetti come Okkio alla Salute, Frutta a Scuola, ecc. Insomma, sembra che il problema della sana alimentazione e degli stili di vita corretti rappresenti un’emergenza nazionale, la soluzione della quale è ritenuta della massima urgenza.
Ma allora, mi chiedo, come mai abbiamo i bambini più grassi d’Europa? E come mai questo dato tende a crescere? Cosa c’è che non va? Quale anello della catena è debole? Lo Stato? La famiglia? La scuola?
Intendiamoci, è cosa ormai nota da tempo che l’obesità ha cause genetiche, culturali, psichiche. Ma sappiamo anche che le cause più frequenti sono legate all’alimentazione troppo abbondante e/o qualitativamente errata, insieme all’aumento di sedentarietà. Il pasto e il movimento di un bambino dovrebbero essere, per così dire, sotto la giurisdizione degli adulti di riferimento. O no?
Facciamo un passo indietro, allora, e chiediamoci dove si è interrotto quel processo educativo che aiutava i ragazzi a scegliere gli alimenti in modo razionale. In effetti, una volta nessuno spiegava ai propri figli perché fosse meglio mangiare la frutta piuttosto che le patatine; così come nessuno spiegava agli adulti il motivo di una dieta variata. Mia nonna non aveva studiato scienze dell’alimentazione, eppure era consapevole del fatto che fosse meglio consumare più legumi e meno carne rossa. Chi glielo aveva insegnato? Tutto era molto naturale ed istintivo.
Ma, ditemi, non vi sembra paradossale che nell’era del nutrizionismo e dell’informazione a portata di chiunque non si abbia più la minima cognizione riguardo all’alimentazione corretta?
A me, francamente, viene un dubbio. Si tratterà davvero di “ignoranza”? Oppure è solo una questione di “rinuncia”? Certo, il problema è alquanto complesso. Non può esserci una sola causa, un solo colpevole. Ma cominciamo ad analizzare i fattori più a portata di mano e di click.
L’industria alimentare, si sa, ha preso la palla al balzo e, com’è sotto gli occhi di tutti, non fa altro che sfornare prodotti di cui decanta le proprietà nutrizionali e preventive nei confronti di questo o quel problema metabolico. Così, sugli scaffali dei supermercati, ne troviamo per tutti i gusti; dai prodotti che fanno dimagrire, a quelli che apportano importanti nutrienti, a quelli che saziano senza ingrassare o che regolano la flora intestinale. E per quanto riguarda l’infanzia? C’è davvero l’imbarazzo della scelta: leggendo i claims sulle confezioni si direbbe che i nostri figli siano quelli meno a rischio di problemi legati all’alimentazione. Abbiamo cereali con aggiunta di calcio e vitamine, biscotti con fibra e miele, bevande ricchissime di vitamine, omogeneizzati di carne e pesce controllati e nutrizionalmente perfetti, latti altamente digeribili ma nutrienti. Ce n’è per tutti i gusti.
La pubblicità, sappiamo anche questo, è l’anima del commercio. Sapete cosa significa letteralmente la parola “slogan”? E’ un’antica parola scozzese che significa “grido di guerra”: un grido capace di segnare la sensibilità di grandi e piccini e di immolare il loro rapporto sull’altere delle leggi di mercato, cioè sacrificarlo senza pietà all’esigenza di “superare la concorrenza”.
La conseguenza disastrosa è la produzione di fattori destabilizzanti, quali il cosiddetto nag factor (fattore assillo), cioè il potere che un bambino condizionato dalla pubblicità e dai suoi slogan esercita sui genitori e sugli altri adulti di riferimento davanti agli scaffali del supermercato. Questo fattore, e ciò che ne consegue, priva il genitore di autorevolezza e sicurezza nel momento in cui, per sfinimento e senso di colpa, cede alle richieste del bambino. D’altra parte da recenti indagini risulta che il 45% delle scelte alimentari di una famiglia viene compiuto dai figli. Ricordiamoci, però, che da che mondo è mondo la “nutrice” di un bambino è sempre stata la madre (nella nostra epoca è giusto che lo sia anche il padre, certo); non si è mai visto un bambino scegliere e alimentare la propria atavica nutrice.
Allora, le cose forse stanno così: da una parte c’è l’informazione “scientifico-divulgativa”, dall’altra l’industria alimentare e la pubblicità e noi stiamo in mezzo. La prima ci “istruisce” su cosa è sano e cosa no, la seconda ci “alletta” con pasti veloci “travestiti” da alimenti nutrizionalmente corretti. In mezzo ci siamo noi e il sostantivo che ho usato prima: “rinuncia”. A cosa abbiamo rinunciato?
Ho pensato a lungo ad una risposta plausibile e mi sono sforzata di guardare la questione da più punti di vista, giungendo però sempre alla solita risposta. In realtà parlo di rinuncia perché credo che il problema del sovrappeso e dell’obesità infantile richieda, più che programmi nazionali di educazione alimentare, l’attenzione “vera” delle famiglie, che non dovrebbe essere un “servizio eccezionale” offerto da genitori, nonni, zii, ecc., ma il normale stato dell’educatore. La rinuncia a cui mi riferisco è, dunque, la rinuncia a quell’attenzione, ovvero all’”accudimento”, dove per accudimento intendo quell’istintiva voglia di guidare, accompagnare, rassicurare con i comportamenti e con il buon esempio. Il mio non è un modo per fomentare i sensi di colpa delle madri lavoratrici, della cui schiera faccio orgogliosamente parte, ma solo una provocazione, un invito a riflettere.
La frase “stai fermo e mangia” dovrebbe essere sostituita da “mangiamo tutti insieme e poi usciamo a fare una passeggiata in bici”. Ma il tempo, si sa, è tiranno. Siamo oberatissimi da una moltitudine di impegni tali da indurci a trasformarci in tassisti e percorrere chilometri per accompagnare i bambini in piscina, mangiando merendine confezionate in macchina, invece di correre o fare un giro in bicicletta con loro; da indurci a consumare cibi pronti e affettati e formaggi per tutta la settimana, piuttosto che impastare una bella pizza insieme. Ma siamo proprio sicuri che accompagnarli in piscina e togliere tempo alla preparazione dei cibi ci faciliti la vita?
Una delle poche pubblicità che guardavo da ragazzina sfoggiava uno slogan affatto somigliante a un grido di guerra. Diceva: “meditate, gente, meditate”!

Già apparso su Terr Press