Si fa presto a dire “dieta”!

limone1Per strutturare una dieta, oggi il nutrizionista ha a disposizione una serie di strumenti che rendono il lavoro agile e preciso. Possiamo fare affidamento su numerose formule predittive per il calcolo del metabolismo basale, strumenti sofisticati per un calcolo ancora più affidabile, altrettanti presidi per valutare gli introiti energetici e nutrizionali, altri ancora per valutare lo stato nutrizionale. Per non parlare dei software disponibili in commercio che velocizzano e ottimizzano i conteggi calorici e la ripartizione dei nutrienti nei vari pasti giornalieri. Vista così, la professione del nutrizionista sembra semplice e priva di alcun intoppo. La realtà però è diversa e il motivo principale risiede nella necessità di rendere un piano alimentare, un consiglio nutrizionale o di integrazione adatti a quell’individuo, con quello stato nutrizionale, quelle caratteristiche metaboliche, quei particolari gusti e, se c’è, quella particolare patologia.
Esistono linee guida generali per una sana alimentazione, destinate a tutta la popolazione; consigli che in ogni caso è bene seguire per mantenersi in salute, come fare attività fisica ogni giorno, non esagerare con i dolciumi e le carni conservate, fare attenzione alla qualità dei grassi, ecc. Ma ogni individuo, ci piaccia o no, è diverso dall’altro e questa diversità è la questione di base con la quale il nutrizionista deve fare i conti. Questo è il motivo per cui una dieta non può essere uguale a un’altra, non si può condividere con un’amica o un parente; lo stesso vale per un dato integratore alimentare. Dietro ogni scelta operativa legata al percorso nutrizionale c’è uno studio attento ai bisogni e alle dinamiche metaboliche che richiede competenze, tempo ed energia. La personalizzazione è un passo obbligato, e deve considerare categorie diverse di persone e periodi diversi della vita di uno stesso individuo. Così, un bambino mangerà qualitativamente e quantitativamente in modo diverso da  un adulto e un anziano; una donna fertile diversamente da una donna in terza età; uno sportivo diversamente da un sedentario. Così, ci saranno casi in cui una dieta non è la soluzione e altri, invece, in cui lo è!
IMG_1947Se si è in presenza di una o più patologie la faccenda si complica ulteriormente: il nutrizionista deve, in piena collaborazione e intesa con i medici, tenerne conto e saper strutturare un percorso nutrizionale sinergico con le eventuali terapie, che supporti l’organismo durante il decorso  e la convalescenza, per un’ottimale ripresa organica, tessutale e metabolica.
La complessità dell’essere umano e la sua individualità genetica, emotiva e metabolica richiedono, di volta in volta, attenzione e modalità operativa assolutamente personalizzate. Ecco perché parlare di dieta in senso generico non ha molto senso e rischia di creare malintesi e pregiudizi.

 

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Il supporto nutrizionale nelle patologie intestinali croniche

intestino_1_60451Mi capita spesso di supportare pazienti con patologie intestinali croniche ai quali viene spesso dichiarata, in sede di diagnosi e di controllo periodico, l’irrisoria
influenza, se non addirittura l’inutilità, di un particolare piano alimentare e di particolari accorgimenti riguardo alla scelta dei cibi. Detto e sottolineato che si tratta di malattie che hanno bisogno di trattamenti farmacologici adeguati, la cosa mi sorprende ogni volta, poiché credo che, visti gli studi numerosi e accreditati sulle relazioni alimenti-microbiota e microbiota-sistema immunitario, considerare il cibo privo di conseguenze, o di valore preventivo, su un quadro infiammatorio con sede intestinale sia quantomeno limitativo. L’attenzione alla dieta è invece necessaria, nonsolo per i motivi appena accennati, ma anche per sopperire ad eventuali carenze nutrizionali cui questi pazienti possono andare incontro a causa di malassorbimento o di evitamento di cibi e pietanze percepiti come dannosi.
Ma facciamo un passo indietro e capiamo cosa e quali sono le malattie croniche dell’intestino,  (“IBD“, inflammatory bowel disease). Esse comprendono la malattia di Crohn e la rettocolite ulcerosa. In Italia circa 200.000 persone siano oggi affette da queste patologie, con un numero di nuove diagnosi negli ultimi 10 anni, incrementato di 20 volte. L’esordio, in genere, avviene in un’ampia fascia d’età, fra i 15 e i 45 anni, con la stessa frequenza in entrambi i sessi. Non si tratta di patologie ereditarie, ma è stata riscontrata una tendenza alla predisposizione familiare. L’andamento di entrambe le IBD è cronico (cioè non vi è una risoluzione definitiva) e ricorrente, con periodi alternati di fasi a cute e fasi di remissione.  In entrambe le patologie, il sintomo ricorrente è la diearrea che, nel morbo di Crohn è accompagnata da importante dolore addominale, mentre nella rettocolite ulcerosa da perdite rettali di sangue e muco, oltre che dalla sensazione di insufficiente svuotamento alle evacuazioni. Entrambe sono dette “idiopatiche”, ovvero a causa sconosciuta. La reazione infiammatoria cronica cheSchermata 2017-02-22 alle 12.12.08
si instaura è causata probabilmente da una reazione abnorme del sistema immunitario verso componenti del tessuto intestinali o ceppi batterici in esso presenti. Alla luce di studi importanti sul microbiota intestinale e sulle sue ampie implicazioni sulle risposte immunitarie dell’individuo, è
 ragionevole ipotizzare che intestino1alcuni fattori associati allo sviluppo di IBD possano essere rappresentati da sollecitazioni eccessive o effetti negativi sul microbiota. I fattori ambientali che possono alterarne la composizione comprendono la dieta, l’uso di antibiotici e l’area geografica. La nota “ipotesi dell’igiene” suggerisce che gli esseri umani che vivono nei paesi più industrializzati sono esposti sin dalla primissima infanzia a un minor numero di microbi che porta allo sviluppo di un sistema immunitario meno in grado di “tollerare” l’esposizione all’ambiente microbico in età avanzata. Questo può attivare in modo inappropriato le risposte immunitarie. In linea con questo concetto, è importante valutare, da caso a caso, il ruolo dell’alimentazione e, nei casi in cui se ne prospetti la necessità, dell’integrazione mirata di componenti pro-microbiota, batteriche e non (probiotici e prebiotici). E’ stato visto altresì che una dieta troppo ricca di grassi e proteine animali e ​​povera di fibre può alterare il microbiota intestinale e aumentare il rischio per lo sviluppo di IBD. Sebbene, anche l’eccesso di fibra e di altre sostanze come polioli, polialcol e e di oligosaccaridi può rappresentare un fattore irritante e scatenante. In ogni caso, la situazione di scompenso nota come disbiosi intestinale è attualmente considerata un possibile fattore eziologico nella patogenesi di queste malattie. I progressi tecnologici che oggi consentono una caratterizzazione più completa delle comunità microbiche intestinali, insieme a recenti studi che mostrano quanto sia importante l’impatto della dieta sulla microbiota, forniscono un forte razionale per ulteriori indagini approfondite sul legame fra cibo, microbiota e sviluppo di IBD . Pertanto, mirare a regolarizzare i pasti, moderare il consumo di alimenti di origine animale, fornire all’intestino sostanze antinfiammatorie naturali, attraverso la scelta di alimenti adeguati e/o di prodotti di integrazione (attentamente valutati da un esperto) sarebbe auspicabile in ogni caso, poiché la salute e l’equilibrio del microbiota intestinale garantiscono migliori risposte immunitarie e assorbimenti più adeguati.
Nella mia pratica, più di una volta ho piacevolmente constatato quanto un piano alimentare ben studiato e plasmato sulle esigenze e i gusti del paziente, dinamico e passibile di aggiustamenti in initere, possa migliorarne la qualità della vita di questi pazienti.

 

 

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Il sale della vita

L’organismo di un uomo adulto contiene oltre due etti di sale, che ogni giorno in parte perde attraverso sudore e urina. Il bisogno di integrarlo è sempre stato prioritario, soprattutto in epoche antiche, in cui le temperature terrestri erano molto elevate e il cacciatore-raccoglitore era costretto a lunghi spostamenti per la ricerca di cibo e riparo.
Da moneta di scambio a conservante, il sale (cloruro di sodio, NaCl) ha rappresentato in passato un bene prezioso e pertanto molto ricercato. Documenti risalenti all’Ottocento a. C. testimoniano il primo metodo di raccolta messo a punto in Cina e ripreso successivamente da altre civiltà. In Asia, in Europa e nelle Americhe il trasporto del sale avveniva attraverso mezzi d’imbarcazione lungo mari e fiumi, mentre nel Sahara, ancora oggi, avviene per via terrestre. Sia le civiltà orientali che quelle occidentali hanno trovato nel commercio del sale uno stimolo allo sviluppo: basti pensare alle innumerevoli attività commerciali che ha caratterizzato non solo per la sua produzione ma anche per il suo utilizzo quale conservante. Attorno a questo composto sono avvenute invasioni, guerre e lotte sociali (nel 1930 fu proprio il rifiuto della tassa sul sale a innescare, con Gandhi, la lotta per l’indipendenza dell’India).
Dall’Ottocento in poi, nuove tecnologie di conservazione (pastorizzazione, surgelamento, uso di conservanti di sintesi) hanno reso il sale meno necessario. Tuttavia, il gusto che esso conferisce agli alimenti lo rende ancora oggi una materia prima importante: fra le nostre percezioni il salato è da sempre un gusto molto attraente. Oltre ad essere essenziale per la sopravvivenza, migliora gli odori e le altre percezioni gustative. È noto, infatti, l’impegno dell’industria alimentare nella ricerca della miscela perfetta fra sale e zucchero al fine di rendere i suoi prodotti estremamente palatabili e, quindi, fidelizzanti.
Il sale è presente in natura in quasi tutti gli alimenti. Ma la quantità maggiore che oggi ingeriamo deriva dai prodotti trasformati e da quello aggiunto in cucina. Oggi, ne consumiamo una quantità eccessiva che espone a patologie cardiovascolari e tumorali importanti. L’allarme lanciato anni fa da SINU (Società Italiana di Nutrizione Umana) riguarda soprattutto l’eccesso di sale nella dieta dei bambini, che inizia spesso dallo svezzamento. Questa pratica è particolarmente dannosa, non solo perché dà adito precocemente ad alterazioni a carico della parete dei vasi sanguigni, ma anche perché l’abitudine a consumare cibi troppo sapidi sin dall’infanzia renderà più difficile contenere il consumo di sale da adulti. Per ridurne il consumo, in realtà, bastano poche regole: ricorrere solo ogni tanto ai prodotti lavorati (ad es., carni e pesce conservati), sostituirlo con spezie, erbe aromatiche e succo di agrumi nei condimenti e, in generale, abituarsi gradatamente a non aggiungerlo alle pietanze.
Per quanto riguarda l’infanzia, è consigliabile inserirlo più tardi possibile nella cottura e nei condimenti, così come ritardare l’accesso a cibi e snack industriali ad alta palatabilità.

Pubblicato su Dimensione Agricoltura di febbraio 2017.DA 2:17

Cibo e metabolismo spiegati ai bambini

Una interessante revisione pubblicata di recente su American Society of Nutrition sottolinea che, a fronte di una cospicua mole di lavori scientifici sul comportamento alimentare degli adulti,  non vi è pari produzione riguardo al comportamento alimentare dei bambini e degli adolescenti. E’ strano, a pensarci bene, vista l’importanza e l’urgenza di fare proprio nelle prime fasi della vita un’efficace prevenzione dell’obesità e di altre patologie, metaboliche e non, attraverso una corretta alimentazione.
In tutta franchezza, per quanto sia auspicabile che la ricerca fornisca al riguardo quanti più dati possibile, credo che la scienza sia già in grado di fornire delle indicazioni sufficientemente precise e accurate per poter effettuare, a largo spettro, politiche alimentari virtuose. Intanto, senza la pretesa di estendere metodiche ambulatoriali a popolazioni numerose, una delle cose che chi ha il privilegio di lavorare anche con bambini e adolescenti potrebbe e dovrebbe fare è fornire più strumenti possibile ai piccoli pazienti e alle loro famiglie.
DSCN6199Concetti come l’impatto glicemico di un alimento, la combinazione corretta dei cibi che compongono un pasto, il ruolo della fibra sul microbiota intestinale, la regolazione dell’appetito e della sazietà, le conseguenze dello stress sul metabolismo rappresentano, una volta acquisiti, strumenti preziosi di autoregolazione e di scelta consapevole. Ovviamente, è d’obbligo l’attenzione alle modalità con cui questi vengono proposti, la quale deve tener conto di molteplici fattori, quali l’età del bambino, la problematica che lo ha condotto nel nostro studio, la possibilità di collaborazione coi genitori, il possibile inserimento dell’individuo in un gruppo e molto altro ancora: tutte cose che saranno evidente dopo un’attenta e dettagliata anamnesi e successiva meticolosa analisi del caso.
Un’altra occasione per fornire questo tipo di supporto è fornita dall’educazione alimentare  a scuola: nel gruppo classe, infatti, i bambini e i ragazzi sono particolarmente ben disposti all’acquisizione di nuove conoscenze, soprattutto se affrontate in modo pratico ed esperienziale. ed. alim.
In generale, dunque, ritengo importante e irrinunciabile che i percorsi di riabilitazione nutrizionale destinati a bambini e adolescenti non si limitino soltanto alla mera indicazione di scelte alimentari consone e agli abituali controlli del peso e della composizione corporea, ma mirino a fornire coscienza delle modificazioni comportamentali e dei risultati che con esse arriveranno.
A dirla tutta, è una modalità con cui cerco di costruire tutti i percorsi nutrizionali, certa che la bontà e l’efficacia di un percorso, a chiunque esso sia destinato, siano il risultato non solo della competenza e dell’attenzione, ma anche della capacità di rendere fruibile concetti articolati e complessi come quelli relativi a cibo e salute. Non c’è nulla che non possa tradursi in linguaggio accessibile: l’importante è possedere l’elasticità, la creatività e l’empatia necessari una buona e corretta comunicazione.

Review citata: http://pubmedcentralcanada.ca/pmcc/articles/PMC4717882/pdf/an009357.pdf

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L’epigenetica e l’obesità infantile. Capire per agire.

Immagine tratta dalla rete

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IOM (Institute of Medicine). 2015

Negli ultimi anni lo studio dell’epigenetica, cioè dei cambiamenti dell’espressione dei geni in seguito a stimoli ambientali, ha chiarito molti aspetti dei meccanismi legati all’espressione genica. Oggi sappiamo che in natura tutti gli organismi viventi ricevono stimoli dall’ambiente e che questi possono cambiare il modo in cui i geni si “accendono” o si “spengono”.
Nonostante il cammino della scienza sia ancora lungo, lo studio dei meccanismi epigenetici sta già rispondendo a molte domande che i ricercatori si ponevano da tempo. Le più importanti riguardano forse lo sviluppo di malattie metaboliche: come può l’ambiente influenzare l’insorgenza di queste patologie? Quanto è importante questa influenza esterna sull’espressione dei geni che condizionano il nostro comportamento alimentare e il nostro metabolismo?
Da vari studi, recenti e non, è noto che il rischio di obesità è influenzato dalla relazione dinamica fra l’ambiente, la genetica e le prime fasi di sviluppo del bambino. In particolare, a destare preoccupazione è l’obesità infantile con le sue conseguenze a breve e lungo termine, viste le dimensioni e la diffusione del fenomeno e il relativo aumento della spesa sanitaria.
L’analisi delle relazioni fra epigenetica e sviluppo di obesità è ancora in corso, ma esaminare queste prime idee iniziali, su cosa e come si può cambiare, potrebbe condurre a nuove soluzioni per la prevenzione dell’obesità infantile.
Uno degli studi epidemiologici più importanti al riguardo è quello relativo alla carestia olandese del 1944, seguita dall’aumento del rischio di obesità, ipertensione, diabete tipo II e addirittura disturbi psicopatologici come schizofrenia e depressione, nei discendenti. I meccanismi con cui questo aumentato rischio era trasmesso erano meccanismi epigenetici: nei feti esposti alla restrizione calorica materna, rispetto ai nati nei periodi precedenti o seguenti la carestia, c’era quindi una maggiore incidenza delle suddette patologie. Questo fenomeno è stato interpretato come un meccanismo ad alto significato evolutivo: l’organismo in formazione registra le caratteristiche dell’ambiente in cui crescerà e si adatta, a costo di ammalarsi in seguito con maggiore probabilità. Dunque, l’epigenetica ha un’influenza importante sulle origini dell’obesità, dallo sviluppo fetale ai primissimi anni di vita.
Alcuni gruppi di ricerca si sono concentrati in modo specifico sulla nutrizione materna e paterna. Studi su topi geneticamente identici esposti in utero a diete materne differenti mostrano che si possono sviluppare fenotipi molto diversi, includendo differenti pesi e differenti conformazioni fisiche. In particolare, topi che dovrebbero normalmente essere obesi acquisiscono un fenotipo magro se la loro madre è esposta a una dieta fortificata con colina, acido folico e vitamina B12, che influenzano la metilazione del DNA in un locus genetico particolare. Analogamente, in vari modelli animali, diete ad alto tenore di grasso durante la gestazione risultano associate a diverse espressioni geniche relative al metabolismo lipidico, a quello glucidico, alla regolazione dell’appetito. Questa espressione genetica alterata può influenzare il metabolismo lipidico e carboidratico della prole, con influenze sul fenotipo delle generazioni successive. Alcuni di questi effetti possono essere mitigati se la nutrizione post natale è correttamente bilanciata e, in particolare, se ha una adeguata composizione lipidica.
L’alimentazione materna durante la gestazione influenza anche il microbiota* della madre e dei suoi figli. In uno studio giapponese sui macachi, ad esempio, madri alimentate con tipica dieta occidentale, ricca di grassi animali, subiscono una traslazione verso specie del microbiota che influenzano il metabolismo lipidico e attivano meccanismi pro infiammatori. Questa modificazione si registra anche nella prole.
Alcuni studi sostengono inoltre che anche l’alimentazione paterna abbia un ruolo importante, poiché modificazioni epigenetiche sembrano agire sulle caratteristiche dello spermatozoo che fertilizza l’oocita. Nei ratti, ad esempio, una dieta paterna ad alto tenore di grassi provocava una disfunzione delle beta cellule pancreatiche nelle femmine della prole. Anche l’obesità paterna sembra influenzare la salute metabolica a riproduttiva della prole per molte generazioni. È chiaro, dunque, che l’alimentazione dei genitori può rappresentare un fattore epigenetico di grande impatto sul fenotipo comportamentale e metabolico della prole.
Questa mole di conoscenze, ancora in via di approfondimento e sviluppo, può contribuire ad approntare, in modo mirato ed efficace, progetti di prevenzione dell’obesità infantile, attraverso programmi di informazione e sensibilizzazione a partire dai percorsi di accompagnamento alla nascita, passando per quelli di supporto all’allattamento naturale e procedendo con l’educazione alimentare in età scolare e nell’adolescenza.

 

Note 

*la comunità di organismi unicellulari che vive in stretta associazione con il nostro organismo.

LA seconda immagine è tratta da IOM (Institute of Medicine). 2015. Examining a developmental approach to childhood obe- sity: The fetal and early childhood years: Workshop summary. Washington, DC: The National Academies Press.

Riferimenti e approfondimenti:

Joss-Moore LA et al. 2015. Epigenetic contributions to the developmental origins of adult lung disease. Biochem Cell Biol;93:119-27.

Lane RH. Fetal programming, epigenetics, and adult onset disease. Clin Perinatol 2014;41:815-31.

Majnik AV, Lane RH. 2015. The relationship between early-life environment, the epigenome and the microbiota. Epigenomics;7:1173-84.

Dobbs, D. 2013. The social life of genes. Pacific Standard, September 3.

Lillycrop, K. A., and G. C. Burdge. 2011. Epigenetic changes in early life and future risk of obesity. International Journal of Obesity 35(1):72-83.

Peterson J. Et al. 2009. The NIH human microbiome project. Genome Research 19(12):2317-2323.

Friedman J. E. 2015. Obesity and gestational diabetes mellitus pathways for programming in mouse, monkey, and man—where do we go next? The 2014 Norbert Freinkel Award lecture. Diabetes Care 38(8):1402-1411.

Kumar H. et al. 2014. Gut microbiota as an epigenetic regulator: Pilot study based on whole-genome methylation analysis. MBio 5(6): e02113-e02114.

Lane M. et al. 2015. Peri-conception parental obesity, reproductive health, and transgenerational impacts. Trends in Endocri- nology and Metabolism 26(2):84-90.

 

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Dimagrimento e microbiota intestinale.

Fino a qualche decennio fa se qualcuno avesse messo in relazione il peso corporeo con la fisiologia intestinale, probabilmente, sarebbe stato considerato un folle visionario. Una parte così poco nobile del nostro corpo può influenzare il metabolismo e l’effetto delle sue disfunzionalità? Lo avremmo chiesto in tanti, magari senza nascondere un pizzico di scetticismo. Eppure, oggi, nessuno si scandalizza sentendo parlare delle influenze che il secondo cervello può esercitare su molte funzioni del nostro organismo. È ormai noto, infatti, che il metabolismo riceve molti segnali regolatori dall’intestino e, in particolare, che la composizione batterica del microbiota, ovvero l’ecosistema batterico che lo popola, può giocare un ruolo importante nell’instaurarsi dell’obesità e di altre patologie, metaboliche e non.
Recentemente innumerevoli evidenze hanno dimostrato come e in quale misura il microbiota intestinale può contribuite all’instaurarsi di patologie quali sindrome metabolica, insulino-resistenza, obesità e diabete di tipo II. In particolare, esso pare strettamente legato agli assorbimenti, al bilancio energetico, all’omeostasi del glucosio e al grado di infiammazione sistemica legata all’obesità. Esperimenti su campioni fecali umani hanno evidenziato la presenza preponderante di particolari phyla batterici nei profili genetici microbici degli obesi. L’ecologia microbica intestinale e il grasso corporeo negli esseri umani è infatti legato a una minore presenza di Bacteroidetes e a una maggiore presenza di Firmicutes, caratterizzati – questi ultimi – da una maggiore capacità rispetto ad altri batteri di metabolizzare carboidrati non digeribili per estrarne energia. La perdita di peso è legata a una riduzione di Firmicutes, una maggiore presenza di Bacteroidetes e in generale una maggiore biodiversità microbica. Queste importanti modificazioni sono facilitate, supportate e mantenute da uno stile di vita sano e un’alimentazione ricca di prebiotici, ovvero di componenti alimentari necessari a nutrire e mantenere in salute il microbiota.
La letteratura scientifica, quindi, indica una strada possibile e percorribile nel trattamento dell’obesità e del sovrappeso: stile di vita sano, dieta adeguata, microbiota a posto!

Grafico peso
BMII grafici riportati di seguito sono relativi a un percorso di dimagrimento in una mia paziente obesa di 47 anni, che, oltre a cambiare le sue abitudini alimentari attenendosi a un piano dietetico aderente ai suoi gusti ma tendente alla riduzione di picchi glicemici e al maggiore consumo di fibra ,  frutto-oligosaccaridi e galatto-oligo-saccaridi, ha iniziato un protocollo di ripopolamento e mantenimento del microbiota intestinale, a base di particolari ceppi di Lactobacilli e Bifidobatteri. Quest’ultimo strumento ha portato a una maggiore regolarità intestinale e ha coadiuvato la perdita di peso, anche in presenza di una scarsa attività fisica. Ma la cosa che più colpisce in questo percorso, iniziato da nove settimane, è la modificazione del gusto e della richiesta alimentare quotidiana: la signora, infatti, non sente più la necessità di zuccheri semplici e ha ridotto spontaneamente le porzioni delle pietanze, in quanto più sazia e più gratificata dalle nuove sensazioni di benessere che il percorso le procura.

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Per approfondire:
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http://www.eufic.org/article/it/artid/The_role_of_gut_microorganisms_in_human_health/

 

 

 

Il supporto nutrizionale nel disturbo oppositivo/provocatorio.

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immagine tratta dal web

Il Disturbo Oppositivo-Provocatorio (DOP) consiste nella presenza nel bambino e nell’adolescente di livelli di rabbia persistente e inadeguata rispetto alla fase evolutiva, irritabilità, comportamenti provocatori e oppositivi, che provocano disfunzioni nelle modalità di adattamento e inserimento sociale.
Molto spesso, in questo disturbo viene a delinearsi e sovrapporsi un comportamento alimentare problematico, caratterizzato da disordine alimentare, destrutturazione delle sane abitudini, compulsività verso i carboidrati e rifiuto di interi gruppi alimentari. Ne possono risultare sovrappeso, carenze nutrizionali, malnutrizione generale, sovraccarico epatico e renale, disbiosi intestinale.

In genere, un bambino o un adolescente con DOP può arrivare all’attenzione del nutrizionista per invio da altro professionista o per iniziativa di uno o entrambi i genitori. Ecco che, come primo impatto, il nutrizionista può ritrovarsi davanti al racconto articolato che ha portato alla diagnosi e la grande frustrazione della mamma e del papà di fronte a comportamenti alimentari destabilizzanti e pervicaci, nei confronti dei quali sono richiesti strumenti di contenimento molto particolari e specifici. Vediamo, allora, gli aspetti principali del colloquio preliminare con gli adulti di riferimento e un esempio di percorso nutrizionale, attualmente in atto, attraverso il quale aiutare e supportare il bambino con DOP.
In prima battuta, ascoltare i genitori, a lungo e con attenzione, aiuterà a farsi un’idea di quel contesto familiare e di quel particolare bambino: le reti relazionali intra-familiari e, soprattutto, la descrizione delle dinamiche al momento del pasto forniscono al nutrizionista molti elementi attraverso i quali delineare una sorta di mappa familiare. Si tratta di un lavoro che richiede tempo, pazienza e più di un colloquio ma che risulterà prezioso per delineare le modalità del percorso nutrizionale da fare col bambino e con la sua famiglia.
Una volta posti i primi punti di riferimento relazionale, è opportuno “lasciarsi introdurre” nella sfera relazionale del piccolo paziente dal professionista o dalla persona che più gli è vicino e con il quale ha sviluppato la relazione maggiormente empatica. Nel caso che vorrei proporre, Marco (nome di fantasia), mi è stato descritto e raccontato dalla mamma, molto preoccupata, che, su consiglio dello psicoterapeuta, si è rivolta a me per avere consigli e strumenti. Marco ha 12 anni, soffre di DOP da almeno due, presenta tratti compulsivi nel consumo dei carboidrati e un rifiuto ostinato e perdurante nei confronti di frutta e verdura. Salta la colazione, è obeso, con un BMI superiore la 95° centile, soffre di gastrite e disbiosi intestinale.

Dopo tre colloqui con le figure di riferimento (il primo con la mamma, il secondo e il terzo con entrambi i genitori), lo psicoterapeuta mi ha introdotto nella sfera relazionale di Marco, il quale, inizialmente si è dimostrato molto diffidente. Tuttavia, nonostante le sue dimostrazioni di insofferenza e opposizione, siamo riusciti a incontrarci anche dopo nel mio studio: gli incontri con Marco (ad oggi, quattro, 45′ ognuno, a cadenza settimanale) vengono intercalati periodicamente a quelli con i genitori e a riunioni/confronto con lo psicoterapeuta. Ecco una breve descrizione del lavoro fatto col bambino fino a questo momento:
I incontro: il bambino ha difficoltà a rimanere concentrato a lungo, è rumoroso e fastidioso: cerco di capire cosa lo ingambateressasse di più (sport, gioco, disegno, costruzione, fumetti, ecc) e scelgo di lavorare sulla sua curiosità, servendomi di un atlante anatomico per ragazzi. Marco ama il calcio, per cui il mio lavoro si focalizza sull’anatomia dei muscoli dell’arto inferiore. Si è mostrato incuriosito e vuole portare l’atlante a casa e ricalcare alcune figure da colorare. Lo ringrazio per questa sua idea che userò – gli dico – con altri bambini che seguo.
II incontro: Marco è molto inquieto e non mi permette di continuare il lavoro concettuale su muscoli, proteine e alimentazione; tuttavia, si è lasciato pesare e misurare, a patto che mi facessi pesare anch’io. Cerco di raccogliere informazioni sulla sua funzionalità intestinale: mi racconta, ridacchiando, che la sua pancia è sempre molto gonfia e che soffre spesso di flatulenza. Questo suo racconto è una buona occasione per invitarlo a masticare più a lungo e a prendere ogni mattina, prima di uscire, un probiotico.
III incontro: il bambino assume il probiotico con discontinuità, ma si dice fiero di riuscire a prenderlo almeno tre volte a settimana e che ne gradisce il gusto. Insieme a questo, su mio precedente suggerimento, ha mangiato dei biscotti al cacao. Ho messo da parte per lui degli adesivi di calciatori e gli chiedo di sceglierne uno a suo piacere. Si mostra molto contento. Riprendiamo a lavorare sui muscoli della gamba e sul suo sport preferito. Lo lascio raccontare di un’esperienza allo stadio vissuta con il papà e un amico di famiglia. Approdiamo a un tema fondamentale: la fatica. Mi dice che vedere uno dei calciatori affaticato lo ha fatto arrabbiare. Riesco a introdurre il tema che mi sta a cuore al momento: la forma fisica. Così, ci ritroviamo a parlare di quantità e lui, fiero e sfrontato, mi indica sull’atlante alimentare la sua enorme porzione di pasta! Lo gratifico per essere riuscito a descrivere bene la sua porzione.
IV incontro: non ha molta voglia di rispondere alle domande e si chiude a riccio, ma mi chiede di sfogliare l’atlante. L’incontro scorre quasi tutto in silenzio fino a poco prima di salutarci. Cinque minuti prima della conclusione mi dice se possiamo vedere insieme un video sul mio computer: lo accontento e gli faccio vedere un video che spiega come potenziare il lavoro muscolare nel calciatore all’aria aperta. Ne approfitto, ancora una volta per catturare la sua attenzione sul versante alimentare, spiegandogli che per ogni motore il tipo di carburante è fondamentale, scoprendo, così, la sua seconda passione: le moto da corsa. Lo ringrazio per avermi fatto incuriosire nei riguardi di un argomento a me estraneo.DSCN7305

Contestualmente, gli incontri con i genitori (ad oggi, cinque, con cadenza e durata non predefinite) hanno affrontato i seguenti argomenti:

– il momento del pasto e le difficoltà relazionali a tavola;
– la prima colazione: offerta di cibo senza forzature;
– il buon esempio: portare a tavola cibo vario e assaporarlo insieme
– la condivisione: il cibo come tramite del racconto.

Ho voluto descrivere questi primi quattro incontri col bambino, rischiando di tediare chi legge, per dare un’idea di quanto il lavoro con soggetti con DOP sia lungo e impegnativo. Strumenti irrinunciabili, la collaborazione stretta con genitori e psicoterapeuta, il confronto con gli insegnanti e con i nonni (anch’essi bisognosi di strumenti di contenimento “alimentare”), il rinforzo positivo, la fantasia e l’inventiva, oltre all’empatia e la pazienza.
Può essere d’aiuto fare alcune letture, che volentieri indico di seguito:
– I disturbi alimentari nell’adolescenza. G. Williams et al. Bruno Mondadori
– Gestire i comportamenti oppositivo/provocatori. G. Daffi. Edizioni Centro Studi Erickson
– Terapia familiare e disturbi del comportamento alimentare nelle giovani pazienti: stato dell’arte: http://www.jpsychopathol.it/issues/2011/vol17-1/05Abbate.pdf
– http://aidap.org/category/articoli-scientifici/
– https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25866195
– https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22688187
– https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25078296

 

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