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Agricoltura depredata e cibo finto: paradossi, conseguenze ed altri orrori

L’industrializzazione del cibo, iniziata dagli anni ’50-‘60 del secolo scorso, ha creato trasformazioni profonde nelle nostre abitudini alimentari e ha posto le basi per lo sviluppo di una serie di patologie metaboliche cui la nostra generazione e quelle future sono e saranno inevitabilmente predisposte. La prima, gravissima conseguenza è sotto gli occhi di tutti: in Italia abbiamo i bambini più grassi d’Europa e si stima  che le nuove generazioni avranno un’aspettativa di vita inferiore a quella delle generazioni precedenti.

Più o meno parallelamente della corsa al cibo industriale si è verificata la cosiddetta rivoluzione verde che, con l’alibi inoppugnabile di voler risolvere i problemi della fame del mondo, ha aperto la strada all’agri-business che oggi spadroneggia a tutto campo, arricchendo in modo smisurato le multinazionali che detengono il monopolio delle sementi ed impoverendo, anzi depredando, intere popolazione contadine del Sud del mondo e non solo. Ma non basta: all’agri-businnes si è aggiunta la rivoluzione genetica, che, dagli anni ’70 in poi, con un altro alibi inoppugnabile, quale quello di aumentare le rese e dare più reddito ai coltivatori, sì è accaparrata un’enorme fetta di mercato, creando e promuovendo a tappeto chimere commestibili, spacciate per il cibo perfetto per l’essere umano, del cui utilizzo ancora oggi non conosciamo le conseguenze.

Partendo, quindi, dall’ossimoro che più gravemente ha danneggiato la nostra cultura e cioè quello dell’agricoltura industriale, siamo arrivati all’effetto che più pesantemente si è abbattuto sull’uomo, rendendo fragile le sue civiltà e annullando certezze antiche e preziose: obesità e fame nel mondo, due lati della stessa medaglia.

Oggi, dunque, fra le sementi Monsanto, le patate BASF e il junk food di MacDonald’s nasce, fortissima e urgente, l’esigenza di tornare alla terra e di rivalutarne il ruolo fondamentale nel quadro economico di un Paese. Siamo dovuti arrivare, cioè, alle aberrazioni per comprendere (di nuovo) il legame profondo fra cibo, terra e cultura di un popolo!

Ma, dopo decenni di propaganda a favore degli ossimori, dei paradossi e di leggi a favore del consumismo sfrenato, tornare alla cultura del parco, semplice, locale e sufficiente è davvero difficile. Eppure, la partita più importante, da oggi in poi, che ci piaccia o no, si giocherà sull’agricoltura e sul cibo locali che, lungi dall’essere argomentazioni di pochi eletti che fanno e disfano a nostra insaputa, devono segnare, invece, la coscienza di ognuno e far posto a dubbi, domande e voglia di verità. Perché ognuno si chieda quale sarà il proprio ruolo nel lungo e periglioso viaggio di ritorno a una concezione più “umana” del produrre e consumare cibo.

È, come sempre, la conoscenza a dover tornare alla ribalta. Quella attitudine, cioè, a non fermarsi a ciò che appare e ad andare in fondo ad ogni cosa. Quella voglia di verità che ci rende meno sprovveduti e più attivi davanti alle scelte.

Il diritto a conoscere, convinciamocene, non ha bisogno di alcun alibi inoppugnabile, perché è inoppugnabile di per sé; a condizione, però, che ogni individuo lo percepisca come tale. È il classico cane che si morde la coda: meno sappiamo e meno vogliamo sapere. Più cose comprendiamo, più saremo in grado di operare scelte critiche e consapevoli… e, ovviamente, più vorremo conoscere e capire.


La questione, però, come tutti sanno, non è così banale, poiché l’attitudine a voler conoscere e comprendere reca con sé non pochi effetti collaterali, coi quali pochi individui del terzo millennio sono disposti a fare i conti. E quindi, meglio acquistare cibo industriale; meglio smettere di preparare il cibo per provvedere all’accudimento dei nostri figli; meglio acquistare tutto ciò di cui il marketing ci fa venire voglia, senza ascoltare i nostri reali bisogni. Tutto, pur di annegare nell’illusione di risparmiare tempo, e, qualche volta, anche denaro.

Un altro cane che si morde la coda, però, si nasconde dietro le scelte-non scelte della numerosissima popolazione dei non consapevoli: il ricorso continuo agli alimenti industriali, spesso ricchi di additivi, grassi e zuccheri e poveri di vero nutrimento e il rifiuto psicologico di una spesa più vicina alle produzioni locali, solitamente più fresche, sane e stagionali, pone a rischio il nostro organismo rispetto a numerose patologie metaboliche e non, e penalizza, nel contempo, l’agricoltura locale, già di per sé depredata ed offesa dalla presenza ingombrante di quella industriale.

Le conseguente sono (saranno) molto gravi.

In campo alimentare assistiamo allo svuotamento del concetto di cibo: l’atto del mangiare è divenuto un’attività completamente scollegata dalla nostra cultura, dalle nostre origini e, persino, dal nostro modo di “funzionare”. Si mangia (o non si mangia) un cibo perché qualcuno ci ha detto, in modo molto convincente che fa bene (o fa male); si sceglie di non cucinare perché qualcuno ci ha detto che il tempo è necessario per lavorare e produrre più reddito. Si comprano le primizie o i cibi tropicali perché qualcuno ci ha fatto illudere che mangiare ciò che ci pare e piace, ovunque e in tutte le stagioni dell’anno significa che la Natura è al nostro servizio. E così via, senza porci domande, se non quella di quanto risparmieremo con la promozione di turno.

Ingurgitiamo cibo senza chiederci da dove viene, com’è stato prodotto, com’è arrivato fino a noi e se ne abbiamo davvero bisogno. E lo portiamo nelle nostre case, lo condividiamo con parenti e amici, certi (illusi) di fare la cosa giusta. Ma qual è la cosa giusta?

Qual è la priorità dell’essere umano?

Un tempo lontano era quella di sopravvivere e in alcune parti del mondo ancora lo è. Nel mondo più “ricco”, oggi, la priorità, invece, dovrebbe essere il “sapere”. Sapere che spesso i cibi destinati all’infanzia sono prodotti senza attenzione a tossine ed additivi; che la maggior parte dei prodotti confezionati acquistati presso la grande distribuzione ci pone immediatamente di fronte all’esigenza di eliminare un rifiuto, uno scarto; che frutta e verdura provenienti da posti lontani non sono maturati sulla pianta e non nutrono come crediamo; che gli stessi prodotti hanno provocato inquinamento da CO2 viaggiando per lunghe distanze; che i nostri organi e i nostri tessuti non hanno bisogno di un apporto proteico animale come quello della nostra alimentazione di oggi; che produrre tanta carne per tutti questi “carnivori inconsapevoli” significa deforestare intere zone del Sud del mondo per coltivare intensivamente mais e soia, destinati agli allevamenti; che la fame di alcuni popoli non è dovuta alla scarsità di cibo, ma alla sua cattiva distribuzione; che la pasta dell’industria alimentare è fatta con grano di origine lontana, trasportato nei nostri porti dopo essere stato trattato pesantemente con conservanti e antifungini e lasciato per settimane nelle stive delle navi prima di essere distribuito alle industrie; che lo sciroppo di glucosio presente in tutte le merendine per bambini limita il funzionamento di importanti ormoni che regolano il nostro metabolismo.  E molto, molto altro…

Cosa hanno a che fare l’Africa, l’Asia, l’America del Sud e le loro foreste con la mia vita, qui e adesso? Sono Paesi ricchi (ancora per poco) di risorse naturali, le terre in cui l’anidride carbonica prodotta dalle attività antropiche viene assorbita nel processo di fotosintesi restituendo all’atmosfera l’ossigeno necessario alla sopravvivenza di tutti gli esseri viventi, anche a me, che vivo qui e adesso.

E quanto pesa la mia scelta alimentare sull’economia del mio Paese? Moltissimo. Sia in termini di impronta ecologica, che di spesa sanitaria, che di supporto all’agricoltura locale.

Qualche dato: 5 milioni di obesi in Italia, costano al Sistema Nazionale Sanitario circa 8,3 miliardi l’anno, c.a. il 6% della spesa sanitaria (dati Istat); nel decennio 2000-2010 i redditi degli agricoltori italiani sono crollati di oltre il 30%.  (dati Confederazione Italiana Agricoltori); abbiamo bambini in età scolare che chiedono su quale albero nasce il Fruttolo e dove vengono allevate le mucche viola (dati miei!).

Tutto questo, tradotto in disagi, malattie, povertà, smantellamento culturale, pesa e peserà sempre di più sulle nostre vite e, quel ch’è peggio, sulle vite dei nostri figli.

Pensiamoci, allora, quando scegliamo il cibo, poiché la nostra scelta fa, davvero, la differenza.

 

 

L’impopolare, scomoda, cultura del cibo.

Di cosa parliamo esattamente quando citiamo il cibo nelle nostre conversazioni? Parliamo di diete, di rinunce o di scelte scellerate, e quanto mai assurde, che possano aiutarci a perdere peso (più che a farci stare meglio). Oppure, parliamo di ricette, o meglio, di trasmissioni televisive e di giornali che ce le propinano in grande quantità, facendoci venire la voglia di parlarne ancora e, subito dopo, quella di metterci a dieta.

Dipende anche dai luoghi, fateci caso. Dal parrucchiere si parla di linea, di cellulite e di altre amenità femminili (e non); mentre al supermercato, se si trova il tempo e il modo di farlo, si parla di offerte, prendi tre e paghi due, nuovi prodotti in promozione, vecchie marche che ci danno sicurezza. Una sicurezza vuota, però, costruita, appunto, solo sulla notorietà di quel marchio, piuttosto che di un altro.

Di cosa parliamo, quindi, quando parliamo di cibo? Di un enorme vuoto che, paradossalmente, viene riempito di ansie, miti, aspettative, paure, inconsapevolezze, superficialità. Il cibo è vuoto. Un grande contenitore che attende di essere colmato di tutto ciò che la nostra quotidianità ci pone davanti. Questa immagine non è affatto lusinghiera, se il quotidiano è un continuo condizionamento attraverso immagini di magrezze estreme e, allo stesso tempo, di cibarie finte ma assai succulente che vantano effetti da elisir di lunga vita.

Spostiamo, allora, per un attimo il nostro punto di vista e proviamo a capire il motivo di tanto vuoto e  della difficoltà di riempirlo di cose meno effimere e più utili all’essere umano.

Qualcuno ci ha fatto credere che si può fare a meno della cultura del cibo, cioè di quel variegato ed abbondante bagaglio fatto di sapienza tramandata, di gusto sviluppato negli anni, della certezza atavica dell’istinto, che ognuno di noi si porterebbe “dentro”. Qualcuno, con mezzi potenti ed infallibili, ci ha convinti, e ci riprova ogni giorno, che possiamo fare a meno di scegliere, dandoci l’impressione che tutto ciò di cui abbiamo bisogno sia sempre e ovunque a portata di mano: disponibile, abbondante, a buon prezzo e, soprattutto, salutare e indispensabile.

Questa, in breve, la tipologia di cose che riempie oggi il vuoto che la cultura del cibo ha lasciato.

È terrificante, se pensiamo quale significato ha per ognuno di noi l’atto del mangiare sin dalle primissime fasi dalla nostra esistenza.

La domanda quindi si trasforma e diventa: di cosa dovremmo parlare, allora, ogni volta che parliamo di cibo? Forse, dovremmo iniziare dall’imperativo che un tempo fu unico e imminente, cioè dalla sopravvivenza. E dovremmo spingerci più in là, riflettendo sulla qualità del cibo e della vita (i due concetti sono l’uno padre dell’altro). Dovremmo parlare di “provenienza” e “sicurezza”, lasciarci coinvolgere di nuovo dall’istinto e riabilitare il nostro gusto per i sapori semplici e naturali. Riflettere sulle scelte troppo facili e sulle loro conseguenze che partono da qui, ma si infrangono altrove con una potenza che neppure immaginiamo. Dovremmo, cioè, riempire di nuovo quell’enorme contenitore con una nuova, ma antica e preziosa, cultura del cibo.

Questo, però, pone ed impone altri interrogativi.

Perché è così difficile? Perché chi lavora per “costruire” questa cultura trova davanti a sé ostacoli insormontabili?

L’unica risposta che trovo plausibile è, purtroppo, anche la più grave e cioè che la cultura del cibo sia alquanto impopolare, fastidiosa, destabilizzante e pericolosa, per chi produce il cibo di cui si parla tanto oggi e tutto quello strascico mediatico derivato, che satura il vuoto di cui sopra (cibo spazzatura, diete, prodotti dimagranti, prodotti precotti, confezionati, fortificati, ecc.).

Che dire, poi, dei tentativi educativi e/o riabilitativi messi in atto dalle istituzioni? A me, che sono abituata ad agire e valutare nell’immediato le conseguenze di ciò che faccio, pare che fino a questo momento ci sia stato un grande dispendio di risorse pubbliche senza grandi risultati e pare, altresì, che le metodologie usate siano discutibili e i partners coinvolti non sempre in linea con gli obbiettivi da raggiungere.

Questa, attualmente la nostra pseudo-cultura del cibo (e, purtroppo, non solo): mangiare porcherie per poi mettersi a dieta, smettere di pensare e di scegliere per disimparare a ragionare con la propria testa, lasciarsi fagocitare da questo sistema consumistico estremo per generare rifiuti che poi dovremo smaltire in modo dispendioso, allontanarci dalla terra e dai frutti che produce per aprire scatolette che ci fanno risparmiare tempo, acquistare cibi finti che soddisfano solo il palato, arrecando un danno enorme alla salute e costringendoci a ricorrere a cure farmacologiche, prodotte da un sistema che si vanta di allungarci la vita . A che prezzo?

Questa è la domanda: quanto è alto il prezzo da pagare per questa comoda esistenza piena, zeppa, di scelte altrui e completamente vuota della preziosa cultura del cibo che ci identifichi e ci salvi dal vuoto?

Riflettiamo sui condizionamenti e cominciamo ad annotare, ogni giorno, le nostre scelte alimentari: accanto, due caselle: a) sto scegliendo io b) qualcun altro sta scegliendo per me.

Cominciamo da qui, dal coraggio di metterci in dubbio. Poiché, come qualcuno disse molto tempo fa, meglio agitarsi nel dubbio che riposare nell’errore.

L’agricoltura, cenerentola disconosciuta

La maggior parte delle persone conosce poco o nulla, oggi, dell’articolato e affascinante processo di produzione del cibo. E’ davvero curioso- non credete?- che l’umanità si nutra di prodotti provenienti dalla terra e sia, di fatto, così disinformata su questi argomenti. Eppure, fino a qualche decennio fa, questa ignoranza e questo disinteresse nei confronti della terra che produce il buon cibo erano inimmaginabili. Oggi, purtroppo, è raro, soprattutto nelle città, trovare un bambino che abbia visto un campo di grano, che sappia cos’è un aratro o che conosca l’avvicendarsi delle colture stagionali. Un sapere prezioso è andato perduto, lasciando spazio ad un crescente ed insulso consumismo che ha spazzato via la cultura del cibo. Eppure, nella storia dell’uomo, connotata da carestie, guerre e rivoluzioni, l’agricoltura e i suoi prodotti sono stati un denominatore costante e comune. Eppure, che ci piaccia o no, l’agricoltura è stata la prima importante attività socializzante.
Il primo anello di ogni catena alimentare è legato alla terra. Ogni ciclo vitale termina nella terra.
Quando andiamo in vacanza ci preoccupiamo del percorso che dovremo fare, tenendo bene a mente il luogo di partenza e quello di arrivo, con attenzione alle tappe intermedie. Ebbene, mi chiedo, perchè non ci poniamo domande sul nostro “viaggio” vitale? Perchè non abbiamo alcuna curiosità sulla nascita del nostro cibo?
La terra ci parla di noi e delle nostre “radici”, senza le quali … dove crediamo di andare?

Cercasi autorevolezza disperatamente!

L’autorevolezza, spesso erroneamente scambiata per autorità, è quella ormai rara qualità di un genitore che, con dolcezza, coerenza e determinazione riesce a fare da guida ai propri figli, indicando loro la strada, promuovendo la loro autosufficienza e nutrendo la loro autostima. Ciò a cui assistiamo oggi è, purtroppo, una sempre più diffusa assenza di regole e di coerenza, contestualmente ad un profondo senso di colpa genitoriale per ogni “no” timidamente sussurrato. A tavola, come in ogni ambito della vita quotidiana, la coerenza e la definizione dei ruoli sono fondamentali. L’alimentazione dei bambini è peggiorata enormemente nel’ultimo decennio e con essa la capacità di scegliere consapevolmente. Si assiste a una continua “delega educativa” dei genitori verso la tv, la pubblicità, le tendenze del momento e, soprattutto si fanno i conti, sempre di più, con il vuoto profondo lasciato dalla mancanza di autorevolezza e di attenzione, sempre più spesso colmato da cibo spazzatura e abitudini sedentarie.
Fare il genitore non vuol dire solo metterli al mondo, anche perchè “il mondo” è e sarà come siamo noi.

Idea nata dalla lettura di: http://www.ecodibergamo.it/stories/Cronaca/266118_un_bimbo_su_dieci__oversize_basta_bis_a_tavola_pi_severi/

I modelli, il cibo e la cattiva comunicazione.

Oggi, per arrabbiarmi un po’, prendo spunto dal racconto fattomi da un’amica, la cui bambina di otto anni è arrivata a casa con una novità: la maestra a scuola ha detto che alcuni cibi vanno evitati perché fanno ingrassare.
È bello, lo dico con convinzione, che una maestra si interessi all’educazione alimentare e che esprima la volontà di insegnare ai bambini la sana alimentazione. Ma, come in tutte le cose, ci sono mille modi per raggiungere un obiettivo e ritengo che questo modo sia il meno adeguato e all’argomento e al target cui è rivolto.
Se a un bambino insegniamo come accendere un fiammifero senza scottarsi, spiegandogli come tenerlo fra le dita, come orientare la fiamma e quando è il momento di soffiarvi sopra per spegnerlo, egli acquisirà una competenza, motivato da ciò che abbiamo trasferito, magari accompagnando il messaggio con l’esempio. Se, invece, al bambino viene detto che il fuoco brucia ed è pericoloso, quel bambino probabilmente non imparerà mai a gestire correttamente un fiammifero.
Vorrei che ognuno di noi riflettesse sul linguaggio. La nostra lingua è complessa e molto articolata: esistono numerose parole e altrettanti modi di dire la stessa cosa. Ma, facciamo un passo indietro e cerchiamo prima di avere le idee chiare su cosa vogliamo comunicare, con particolare attenzione al destinatario della nostra comunicazione.
Parlare di cibo a bambini della scuola primaria, così come agli adolescenti, implica una serie di competenze, responsabilità, abilità comunicative. Se è vero che il cibo non è solo nutrimento (non mi stancherò mai di dirlo e scriverlo!), ma anche e soprattutto strumento sociale, di condivisione e confronto con i pari, allora non può essere trattato come qualsiasi argomento, ma richiede delicatezza e attenzione. Se il corpo è il mezzo attraverso cui il bambino e l’adolescente si misurano con il resto del mondo, allora parlare senza cognizione di causa ai bambini di “grasso”, “ciccia”, “alimenti ingrassanti” o “dimagranti” è quantomeno rischioso, soprattutto se diamo un’occhiata a certi numeri: in Italia per ogni 1000 donne fra i 10 e i 25 anni si verificano tre casi di anoressia, dieci di bulimia, settanta di disturbi subclinici, cioè di difficile diagnosi; si registra, inoltre, una preoccupante anticipazione dell’età d’esordio in età prepubere (bambini sui 7 anni possono manifestare anoressia). In aumento anche i casi maschili adolescenziali (rappresentano un decimo di quelli femminili per l’anoressia nervosa) che tendono più al consumo per esercizio fisico che alla condotta alimentare restrittiva.
Sarebbe corretto, dunque, non avventurarsi in gineprai da cui poi è difficile uscire. L’educazione alimentare nelle scuole è fondamentale, ma va affrontata in modo serio e prudente, soprattutto in età pre-adolescenziale. Ritengo che gli educatori abbiano un ruolo importantissimo e che siano figure di riferimento su cui contare, a condizione, però, che i loro passi non siano azzardati e non si muovano su terreni a loro poco congeniali, in un’epoca, la nostra, in cui gli aggettivi “grasso” e “magro” assumono significati ben più complessi rispetto al passato.
Buona riflessione!

Spiegare il cibo ai bambini: adeguare l’educazione alimentare ai cambiamenti del mondo.

Ho l’ambizione di spiegare ai bambini cosa sta succedendo al nostro cibo. È un’ambizione motivata dalla certezza che bisogna fornire strumenti adeguati a chi il futuro se lo giocherà con fatica e facendo a meno di risorse a cui noi siamo abituati e che troppo spesso diamo per scontate.
Spiegare il cibo ai bambini non è solo fare educazione alimentare come siamo abituati a pensarla. Certo, sapere che gli alimenti si dividono in gruppi e che sono composti da principi nutritivi è importante. Come lo è, del resto, riconoscere una merenda finta (industriale) da una vera (casalinga)!
Tuttavia, sono convinta che il lavoro da fare sia più profondo, più ampio, più complesso e articolato e che richieda tempo, competenze, dedizione. Non è più sufficiente spiegare ai bambini cosa contiene il pane e quando e come va mangiato. È necessario raccontare loro cosa c’è dietro ciò che mangiano: la fatica di chi coltiva la terra e le difficoltà con cui oggi deve misurarsi. Ci sono modi, tempi e persone per questo, ma tutti possiamo fare la nostra parte, cercando il linguaggio adeguato, dando il buon esempio, non perdendo buone occasioni di confronto. Ricordiamoci che, come scrive J. Juul in uno dei suoi testi più famosi, il bambino è “competente”. Dobbiamo essere pronti a fidarci delle sue competenze e a valorizzarle.
Non è un’utopia insegnare ai bambini che le scelte di ogni giorno pesano sul futuro di tutti. È e deve restare un obiettivo comune a noi adulti.
Ho l’ambizione, dicevo, di spiegare ai bambini cosa sta succedendo al nostro cibo. E spero che sia un’ambizione contagiosa.

Il cibo “svuotato”!

Un antico aforisma recita “Il piacere dei banchetti non si deve misurare dalle ghiottonerie della mensa, ma dalla compagnia degli amici e dai loro discorsi.” Era Marco Tullio Cicerone che, nel 44 a.C., aveva già le idee ben chiare sulla relazione che il cibo intesse fra uomo e uomo.
Il cibo, dunque, non può essere semplice oggetto di interessi economici o semplice e puro edonismo. Esso deve, invece, assumere il valore supremo di qualcosa da difendere; una valida ragione, cioè, per tutelare e migliorare la qualità della vita, poiché da esso stesso, dipende la nostra vita.
Leggendo articoli come quello che vi propongo, non posso che provare rabbia (tanto per cambiare!) e scoramento (che dura, per fortuna, solo un attimo!) nel constatare ancora una volta a quale ignobile destino il nostro cibo e l’atto del mangiare siano destinati in questa società.
Se è vero che ognuno di noi associa il cibo a valori simbolici, culturali, creativi ed affettivi mi chiedo a cosa possa servirci la miriade di programmi televisivi di cui pullulano i palinsesti, pieni di personaggi, lontani mille miglia dalla cultura del cibo, che scucchiaiano e sforchettano all’insegna del gran gourmet! Soubrettes, attori, semplici cittadini chiamati a misurarsi fra i fornelli, per infarcire di ricette, consigli e trucchi culinari le nostre menti “affamate” di … di cosa, se siamo il Paese in cui si vendono un numero smisurato di libri di ricette ma non cucina più nessuno?
Mi vengono molte risposte in proposito, ma tutte con una leggera vena di perfidia ed ironia. Soprassediamo, quindi.
Analizziamo, invece, il fenomeno mediatico: il cibo fa ascolti. Parecchi ascolti. Quindi è diventato “merce”. Questa centralità così morbosa con cui vengono connotati l’atto del cucinare e del mangiare fa a cazzotti, peraltro, con i modelli proposti dalla stessa “scatola magica”, inneggianti alla magrezza estrema, alla perfezione e alla bellezza a tutti i costi. Allora, mi chiedo, come ci vogliono? Come ci vuole questo mercato? Forse, mi rispondo, non c’è una logica “umana”, biologica, sensata, razionale. Forse è solo e soltanto “mercato”.
C’è molto da riflettere su quanto vuoto è stato insufflato nella parola “cibo” e poco, anzi niente, su cosa fare davanti a programmi televisivi di quel tipo, non credete?

Idea nata dalla seguente lettura: http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/01/31/news/l_invasione_dell_ultra-cibo-29108923/