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Natura del gusto e fidelizzazione ai sapori

Un articolo di Maria Giusi Vaccaro

“In origine c’è il semplice fabbisogno alimentare e il desiderio di rispondere alle necessità del corpo nutrendosi. Le sensazioni procurate dalla sazietà, gli aromi e i sapori del cibo si trasformano allora in piacere. La memoria conserva sia le sensazioni sia il piacere, e così, successivamente, le prime saranno promessa del secondo. Fabbisogno, desiderio, piacere nascono all’interno di reti neurali che per larga parte si sovrappongono le une alle altre.”
(Il cervello goloso, Andrè Holley)

Studi di neuroscienze sulla percezione del cibo, dimostrano che mangiare risponde non solo al primitivo, indispensabile bisogno di sazietà ma soprattutto al bisogno di gustare; dalla scelta di un alimento al suo assaggio, mangiare mette in moto una serie di meccanismi cognitivi, ancestrali o nuovi, che impegna ogni area del nostro cervello. Proprio intorno al gusto e ai suoi complessi meccanismi ruota l’enorme giro d’affari dell’industria alimentare a livello globale che basa le proprie politiche commerciali sul fatto che l’uomo ha trasformato il cibo da semplice strumento di sopravvivenza a raffinata fonte di piacere.
Le neuroscienze considerano il cibo come una sorta di “ricompensa naturale” al pari dell’attività sessuale e altre attività ritenute piacevoli dal cervello, innescando un comportamento di ricerca, rinforzo e ripetizione.

Scienziati e tecnologi alimentari studiano quotidianamente come accrescere l’appetibilità dei cibi proprio per sovra-stimolare i circuiti della ricompensa, della gratificazione. Un prodotto appetibile o palatabile è qualcosa che eccita il nostro gusto sovrastando ogni altra percezione, seducendo il consumatore fino a innescare una vera e propria dipendenza caratterizzata da reazioni incontrollabili e irrazionali.>
Questa manipolazione viene effettuata attraverso sofisticati calcoli matematici con l’obiettivo di farci raggiungere il BLISS POINT (termine coniato da J.L. Balintfy e applicato da H.Moskowitz), definito come il punto di massima beatitudine indotto da un alimento, oltre il quale, se ne riduce il potere di attrazione. Il “senso di gradimento sensoriale ottimale” si raggiunge con la sapiente combinazione di zuccheri, grassi e sale, i tre esaltatori del piacere in grado di procurare una sorta di estasi sensoriale, di far superare la percezione del senso di sazietà spingendo il consumatore, pervaso così da un appetito irreprimibile, a sovralimentarsi, esponendosi al rischio di un aumento ponderale nel breve termine e allo sviluppo di disturbi metabolici e psicologici più gravi nel lungo termine.

La sinergia edonica di zucchero-grasso-sale, ci porta a reiterare gli acquisti, dovuti alla dipendenza da certi sapori – legata più alle sollecitazioni artificiali che non alle caratteristiche autentiche dell’alimento. Sollecitazioni studiate per generare un piacere multisensiorale, in modi pervicaci e in tempi rapidissimi. Ne derivano, un’alterazione del palato e un’omologazione del gusto e dei desideri dei consumatori, sempre più abituati a prodotti dolci, salati e ricchi di grassi. Queste errate abitudini alimentari rischiano di produrre quella che viene definita disgeusia collettiva o distorsione del senso del gusto.
Dolce, grasso e salato incrementano nettamente le preferenze alimentari che vanno dal piacere al desiderio compulsivo. La scelta tra gli scaffali avviene in base alle proprie aspettative sul gusto e sulla sensazione che si proverà nel percepirli, oltre ai segnali di piacere che il cervello produrrà come ricompensa per aver scelto i cibi più gustosi.
Il gusto, l’aroma e la soddisfazione nonché l’attrattiva sensoriale (si mangia con tutti i sensi, soprattutto con gli occhi), prevalgono ancora sugli aspetti nutrizionali.

Ma cos’è il gusto?

Ne “Il cervello goloso” A. Holley scrive che per l’opinione comune non è il gusto propriamente detto a essere coinvolto nella scelta di un cibo, ma l’olfatto, che ci permette di percepire le sostanze volatili contenute nei grassi di consistenza cremosa. Quest’ultima, si traduce in quella sensazione tattile di cui è responsabile il nervo trigemino che ci gratifica con la consistenza vellutata del cioccolato, con la croccantezza del pollo fritto o con la cremosità del formaggio (vedi articolo ospitato in questo blog).
ll gusto è uno dei cinque sensi dell’essere umano, che viene riconosciuto grazie alla presenza sulla lingua di quattro tipologie differenti di papille gustative, al cui interno, si trovano i bottoni gustativi. Questi, portano al loro apice i recettori del gusto e trasmettono poi i segnali al cervello.
L’ attivazione delle papille gustative inizia durante la 30° settimana di gestazione, quando il liquido amniotico e le sue variazioni chimiche causate dalla dieta materna, possono stimolare i recettori gustativi fetali. Questa attivazione precoce, appare come un primo passo nello sviluppo della memoria sensoriale gustativa, che modellerà la preferenza per i vari gusti, influenzando così le scelte alimentari del futuro neonato e bambino. Lo sviluppo delle preferenze individuali per alcuni alimenti rispetto ad altri, è un processo complesso che coinvolge sia fattori motivazionali che comportamentali, insieme ad aspetti genetici specifici. (pubmed)
Oggi è noto che i recettori del gusto non sono confinati nella lingua ma sono espressi anche in altre parti  della bocca e in maniera predominante in tutto l’apparato gastrointestinale, attraverso cellule epiteliali sensoriali intestinali specializzate che stabiliscono una connessione tra intestino e cervello (pubmed).
La Scienza ha ufficialmente riconosciuto sei gusti dell’apparato gustativo umano: dolce, amaro, salato, acido, umami e grasso, suddividendo la popolazione in supertaster o super gustatori (25%), normal taster (50%) e non taster (25%) in base alla diversa capacità di percezione degli stessi (Linda Bartoshuk,2000). La variazione nel gusto più studiata è l’abilità di gustare un preparato particolarmente amaro, il propiltiouracile (PROP).La sensibilità al PROP è associata a una sensibilità più spiccata al gusto in generale e a un maggior numero di papille gustative sulla lingua( https://www.sciencedirect.com/).  Le combinazioni e le quantità di queste sei percezioni producono i sapori sperimentati, con l’aiuto delle informazioni olfattive e delle sensazioni somato-sensoriali provenienti dalla bocca.

Ma il gusto è associato anche a importanti funzioni fisiologiche ed evolutive.

Il gusto dolce è caratterizzato da cibi ricchi di carboidrati semplici come lo zucchero (saccarosio), un composto organico costituito da una molecola di glucosio e una di fruttosio. E’ innato in tutti i mammiferi, poiché gli zuccheri indicano in maniera affidabile un alto livello di energia, rappresentando quindi uno strumento adattativo essenziale per la sopravvivenza dell’organismo.

L’innata predilezione per il gusto dolce e la propensione a scegliere alimenti dolci sono ben sviluppate fin dalla nascita, determinate anche dalla presenza di specifici recettori e fattori genetici (polimorfismo del gene tasirR) (pubmed) e può essere rafforzato o modificato dall’offerta e dalla disponibilità del cibo, oltre che da influenze familiari e culturali anche prima dell’infanzia (pubmed; pubmed).

“La voglia di dolce persiste anche quando siamo sazi, il che spiega probabilmente perché il dessert compaia a fine pasto. Essere golosi di cibi ricchi di zuccheri, è un ottimo adattamento evolutivo per un onnivoro, il cui grande encefalo richiede un’enorme quantità di glucosio (unica fonte di energia utilizzabile dal cervello) o perlomeno era la strategia giusta un tempo, quando la possibilità di ingerire dolci rappresentava un’eccezione e non la regola.“
(Michael Pollan-Il dilemma dell’onnivoro )

Cosa dire del sapore amaro?
“L’amaro sulla lingua ci invita alla cautela, per evitare che un veleno vada oltre quelle che Brillant-Savarin chiama le fedeli sentinelle del gusto” (Il dilemma dell’onnivoro).
Dal punto di vista evolutivo, il gusto amaro viene associato a sostanze tossiche, come gli alcaloidi o a cibi degradati (pubmed). Pensiamo alle donne che durante la gravidanza sono particolarmente sensibili all’amaro, probabilmente come adattamento per proteggere il feto anche dalle tossine più blande, come ad esempio quelle dei broccoli (Brassica oleracea). L’associazione dell’amaro a sostanze pericolose dimostra, ancora una volta, come il gusto sia legato alla sopravvivenza, oltre che al piacere: la capacità di percepire i sapori primari si sarebbe selezionata nel corso dell’evoluzione per distinguere gli alimenti utili da quelli dannosi.

Il gusto acido non è dovuto a ingredienti specifici, come per il dolce o il salato, ma è legato al pH dei cibi quando questo è inferiore a 7. Per la sua percezione però è fondamentale anche il rapporto con lo zucchero. Questa interazione è molto importante ai fini sensoriali, in quanto saccarosio, glucosio e fruttosio sono in grado di contrastare la percezione del gusto acido e rendere più accettabile il sapore dell’alimento. Motivo per cui il miele, alimento di natura acida, non viene percepito come aspro.
L’acidità inoltre, bilancia la sensazione di grasso, contrasta l’ossidazione, mantiene vivi i colori e ci avverte che i cibi potrebbero essere avariati.

Il salato è un gusto innato e attraente, prodotto dal sale o cloruro di sodio (NaCl). E’ essenziale per la vita poiché mantiene l’equilibrio salino dei fluidi corporei, un retaggio della discendenza acquatica dei mammiferi. Ma migliora anche gli odori, i sapori, minimizza l’amaro e bilancia il dolce. Un odore e un sapore appresi, migliorati dal sale, diventano irresistibili.

Nel saggio “La rivoluzione nel piatto”, Sabrina Giannini racconta che, secondo il giornalista Premio Pulitzer Michael Moss, la Cargill, industria americana leader mondiale nella produzione di sale, sta lavorando per cambiare la forma fisica del sale, polverizzandolo in modo che colpisca più rapidamente le papille gustative per esaltare il flavor brust, l’esplosione di sapore.

Il gusto umami deriva dal glutammato monosodico, ovvero il sale di sodio dell’acido glutammico, l’amminoacido più abbondante in natura. E’ un gusto più sfumato rispetto agli altri e segnala la presenza di derivati delle proteine, nutrienti essenziali per il benessere. Il termine umami vuol dire saporito, esalta il gusto, la piacevolezza e la palatabilità del cibo. In natura è presente nei funghi, nelle carni, nel pesce e nel latte materno. Nella nostra cucina si trova nel parmigiano reggiano stagionato, nei dadi per il brodo o nella salsa di soia.

E il gusto dei grassi?

Alcuni recenti studi sostengono che all’elenco ristretto dei gusti percepiti, vada aggiunto anche quello specifico del grasso, l’oleogusto. I meccanismi del suo rilevamento sono ancora poco noti e meritano ricerche più approfondite. Studi recenti come quello dei ricercatori della Washington University School of Medicine di St.Louis (Missouri), hanno identificato i recettori gustativi specializzati per il grasso, regolati dal gene polifunzionale CD36 (CD sta per Cluster Differentiation, una codificazione internazionale nel campo dell’immunologia) localizzato nel braccio lungo del comosoma 7 (Journal of Lipid Research). Ma la strada da fare per comprendere appieno la chimica di questa specifica percezione gustativa è ancora lunga.
Intanto, come ci racconta “La Rivoluzione nel piatto” di Sabrina Giannini, che nel 1990 Adam Drewnowski, uno tra i più autorevoli studiosi del grasso nella dieta alimentare, ha capito che per il grasso non vi sia il bliss point. Non esiste, quindi, un livello di concentrazione ottimale oltre il quale un’ulteriore aggiunta riduce il potere di attrazione dell’alimento. Infatti, nel caso dei grassi, gli esperimenti hanno dimostrato che il cervello li gradisce senza conoscere misura; non lancia segnali di allarme soprattutto quando sono mescolati allo zucchero, che riducendone la percezione, li rende “meno visibili” al cervello e di conseguenza, un ingrediente assai insidioso. Nelle vostre esperienze culinarie, vi eravate mai accorti di questa “trappola del grasso”?

I gusti innati possono essere quindi amplificati dalle esperienze che facciamo intorno al cibo e dalle relazioni che instauriamo con esso. Pensate ad esempio al disgusto iniziale che può dare una bevanda amara quando siamo abituati a consumarla zuccherata.  Questo fenomeno prende il nome di oversizing ovvero il sovradimensionamento di ciò che è innato.
Le multinazionali sfruttano questi processi per aumentare le loro vendite ma ne sono anche schiave. Infatti, lo zucchero come ingrediente non si limita ad addolcire ma sostituisce ingredienti più costosi, aggiungendo volume e consistenza. Il sale, che ha un costo relativamente basso, aumenta il fascino dei cibi industriali, è un ottimo conservante e un ottimo dissimulatore dell’aroma di riscaldato tipico della carne precotta nei pasti pronti. Il grasso stimola l’iperalimentazione, aumenta la palatabilità e maschera sapori sgradevoli come il metallico causato dalla lavorazione. Tutti concorrono al prolungamento della scadenza dei prodotti. Il risultato finale è caratterizzato da prodotti progettati per regalarci l’illusione di una dieta diversificata, per indurre un “effetto gola” assicurato. Piatti belli da vedere, invitanti dal punto di vista sensoriale ma di scarso valore nutritivo, qualitativamente scadenti e tali da aumentare l’incidenza di patologie cronico-degenerative.

Come possiamo difenderci da questo fenomeno così presente e invasivo?

Per comprendere la differenza di un gusto artefatto e uno naturale, l’Accademia di Nutrizione Culinaria e Cucina Antiaging, ci invita a fare una semplice esperienza sensoriale confrontando l’assaggio di un pesto alla genovese industriale e uno fatto in casa. Il primo – che tra gli ingredienti riporterà anche il siero di latte in polvere (zucchero nascosto) – darà una percezione del gusto immediata, in “altezza”, che ecciterà le papille gustative ma sarà di breve durata e non collegato alle proprietà nutritive del prodotto. Il secondo, darà una percezione del gusto in “lunghezza”, molto più persistente, che esalterà il sapore del vero ingrediente del pesto: il basilico. L’obiettivo deve essere quello di valorizzare il gusto degli alimenti naturali in maniera sana e bilanciata, garanzia di una cucina più nobile in grado di apportare sia benefici psicologici che fisiologici senza l’aggiunta di componenti nocivi per la salute (https://academy.cucinaevolution.it/).

Gustare e riconoscere il cibo del piacere deve associarsi quindi a un’esperienza di qualità e non a una scelta rapida e sbrigativa indotta da un’abile ricerca industriale.

Le neuroscienze ci insegnano che il sistema cerebrale umano del sapore è dotato di plasticità – particolarmente notevole nei neonati e nei bambini piccoli (pubmed), grazie a un elevato tasso di turnover cellulare. Questo processo permette, in seguito all’esposizione ripetuta a uno stimolo gustativo, di aumentarne la sensibilità. Possiamo quindi abituare e riabituare il cervello alla preferenza per il cibo genuino e costruire un giusto equilibrio tra il piacere e l’alimentazione giornaliera (sulla riabilitazione sensoriale, puoi approfondire qui). Quanto più a lungo si consumano cibi sani, migliore sarà il sapore che verrà percepito dai nostri sensi successivamente (pubmed).
È tempo di tornare al sapore autentico dei cibi. E’ tempo di tornare al gusto vero.

 

Maria Giusi Vaccaro è laureanda in Scienze Biologiche e appassionata di neurogastronomia. Ha conseguito un Master in Nutrizione culinaria e Cucina antiaging (Art Joins Nutrition Academy).

 

Immagine di G. D’Urso

“Guida per cervelli affamati”, un viaggio attraverso l’atto alimentare

Ci sono libri che riescono a parlare in modo semplice di faccende molto complesse. “Guida per cervelli affamati” di Carol Coricelli e Sofia Erica Rossi, uscito a novembre del 2021 per Il Saggiatore, è uno di questi.
Incuriositi, e forse anche inteneriti, dall’immagine in copertina, ci si ritrova immersi sin dalle prime pagine in un’atmosfera che sa di retaggi e strumenti antichi, come l’importanza dell’utilizzo del fuoco per la cottura dei cibi e i recenti studi di neurologia sulla predilezione del cervello umano per i cibi cotti. L’apporto delle neuroscienze alla comprensione dei comportamenti alimentari, umani e non solo, rappresenta il filo conduttore di tutto il saggio. Dal dilemma dell’onnivoro alla diffidenza dei nostri bambini per le verdure, le autrici forniscono informazioni preziose, sotto forma di racconto interessante e accessibile anche ai non addetti ai lavori, sugli aspetti più misteriosi e complessi di un atto che ci accomuna tutti: la scelta alimentare. E lo fanno accompagnandoci in un magnifico viaggio: dagli studi di Gordon Shepherd sulle percezioni gustative, per arrivare ai più recenti dati sul cibo del futuro, a base di larve di insetti, oppure prodotto con bio-coltivazioni in laboratorio e stampanti 3D. Lo fanno senza trascurare i tempi e i luoghi da cui veniamo e i motivi per cui siamo ciò che siamo.

Il viaggio consta di cinque parti, cinque percorsi ognuno dei quali offre l’occasione di comprendere i meccanismi neurologici dei nostri comportamenti, oltre che di scoprire luoghi e modi in cui il cibo e l’atto alimentare assumono valenze diverse da quelle che già conosciamo.

Nella prima parte, “Koala, gorilla e fast food. Breve storia di un’evoluzione culinaria”, le autrici affrontano il tema dell’evoluzione della scelta alimentare. E lo fanno raccontando, attraverso gli studi di antropologi e neuroscienziati riguardo ai cambiamenti alimentari nel tempo, come siamo diventati ciò che siamo, in seguito a cambiamenti epocali come la scoperta del fuoco, la domesticazione animale e la coltivazione della terra. Interessante, il tema dell’onnivorismo, già trattato da Michael Pollan e Jonathan Silvertown, e qui ripreso, con i suoi vantaggi evolutivi e le ataviche insicurezze che ancora oggi reca con sé. Così come il legame fra la dis-regolazione di alcuni circuiti cerebrali con i quali distinguiamo il cibo da sostanze non commestibili e il rischio di sviluppare particolari disturbi del comportamento alimentare (picacismo).

Immagine di pag. 93 – Aree cerebrali coinvolte nei comportamenti alimentari umani)

Proseguendo la lettura, le autrici ci conducono nei territori biologici della scelta alimentare, in cui “Tutte le strade portano al cervello”, come recita il titolo del capitolo di apertura della seconda parte. In queste terre misteriose, corrispondenti ad aree cerebrali e a sostanze come ormoni e neurotrasmettitori, si consumano le diatribe quotidiane delle scelte, delle preferenze e dei disgusti che caratterizzano il comportamento alimentare umano. Così apprendiamo che l’insula, parte della corteccia posta profondamente fra lobo temporale e lobo frontale, è l’aera che risponde al gusto dei cibi ingeriti. E che la corteccia orbitofrontale, zona chiave nei meccanismi di ricompensa, risponde con stimoli appropriati durante il pasto fino alla sazietà, in cui invece silenzia la propria attività. Scopriamo che l’apparato gastro intestinale non è solo un recipiente in cui avviene la digestione del cibo ingerito e l’assorbimento dei nutrienti che lo compongono, ma anche un importante interlocutore che instaura con specifiche aree del cervello un dialogo serrato fatto di messaggi che regolano fame, sazietà, gusto, disgusto, gratificazione sensoriale. Tutti questi meccanismi si intrecciano e si integrano con quelli messi in atto dal microbiota intestinale che, come un organismo nell’organismo, lavora regolando assorbimenti, producendo molecole protettive, contribuendo alla sintesi di neurormoni e sollecitando il sistema immunitario.
Sulla regolazione della preferenza gustativa, a partire dai primi esperimenti di Ivan Pavlov sull’apprendimento associativo per arrivare a quelli più recenti, condotti con tecniche di Risonanza Magnetica Funzionale e eye tracking, apprendiamo la presenza di mappe funzionali che regolano le risposte oculari davanti ad alcuni cibi particolarmente graditi o sgraditi e che la risposta pupillare degli individui appartenenti al campione esaminato è in relazione con il loro Indice di Massa Corporea.

Nella parte terza ci si addentra ancora di più nell’ambito della percezione sensoriale e si scopre che l’assaporamento è un fenomeno complesso che coinvolge ognuno dei nostri sensi. Le autrici parlano del gusto come un senso dai superpoteri per indicarne l’organizzazione neurobiologica composita. Ci svelano infatti come ognuno dei nostri organi di senso contribuisce alla definizione e modulazione dei vari sapori e come questi processi vengono organizzati da precise aree cerebrali, restituendoci sensazioni che per noi sono automatiche: la sazietà, il gradimento, l’appagamento, il disgusto, la curiosità. Questi studi hanno promosso un nuovo tipo di gastronomia basata sul coinvolgimento di sensazioni visive, tattili, uditive per esaltare l’assaporamento di determinate pietanze. Così a Shanghai si può gustare un menù fisso di ventidue portate nel ristorante multisensoriale dello chef Paul Pairet: i commensali gustano le portate in una atmosfera che varia costantemente accompagnando la degustazione con diverse sollecitazioni visive, olfattive e uditive. Oppure è possibile gustare un dessert dalle sembianze di spugna con tanto di schiuma, a Senigallia, nel ristorante dello chef Moreno Cedroni: un’esperienza sensoriale davvero originale e spiazzante.

Un altro aspetto interessante affrontato da “Guida per cervelli affamati” è l’interazione fra il condizionamento culturale la genetica dei comportamenti alimentari. Nel capitolo “La lunga via dei sapori”(parte quarta) le autrici raccontano come le scelte alimentari si diversifichino nelle varie popolazioni del pianeta in base a tratti genetici peculiari: nel 2010 un gruppo di scienziati coordinati dal genetista clinico Paolo Gasparini ha ripercorso il viaggio di Marco Polo per testare, attraverso campioni di saliva, la relazione fra abitudini alimentari e genetica. I risultati sono interessanti: “paese dopo paese, cultura dopo cultura, la spedizione approda poi in Kirghizistan e Kazakistan, per concludersi in Cina. Il lavoro dei ricercatori rientrati in Italia (…) non è ancora concluso”, ma grazie ai dati raccolti fin qui sono state identificate alcune varianti genetiche correlate al consumo di alcuni cibi e bevande: come, ad esempio, i geni TAS1R2 e TAS2R3 legati alla produzione di proteine coinvolte nella percezione del gusto dolce, nel gradimento della vodka e del vino bianco; oppure il gene PCLβ2, legato al gradimento del tè caldo, o il TRPV1 a una scarsa preferenza pe la barbabietola.
Gli altri capitoli della parte quarta sono dedicati ai fattori culturali e relazionali che condizionano il comportamento alimentare. E quindi leggiamo dell’influenza delle tradizioni storiche, ma anche di quelle familiari. Dei modelli collettivi, della tendenze sociali, e infine dei cambiamenti a cui ogni individuo va incontro nel corso della vita, delle neofobie infantile, della selettività estrema di certi bambini, dell’effetto della facilitazione sociale in adolescenza, dell’influenza della tecnologia sulle scelte alimentari, di certe patologie degenerative dell’anziano che portano alla compromissione delle abilità sensoriali e conseguentemente delle scelte alimentari.

Immagine pag. 278 – Pizze nello spazio

La quinta e ultima parte affronta l’importante tema della sostenibilità alimentare: dagli insetti quali cibo proteico del futuro alle bistecche artificiali e i pasti prodotti da stampanti D33 destinati ai viaggiatori spaziali che si preparano alla conquista di Marte. E’ una sezione del libro che pur parlando di futuro, viaggi interplanetari e alta tecnologia, ci riporta paradossalmente con in piedi per terra a fare i conti con la popolazione mondiale in crescita esponenziale e con l’insufficienza delle risorse alimentari. Ed è così, che ci avviamo alla fine della lettura di questo bel saggio, pensierosi per gli oltre 9 miliardi di persone previste per il 2050 e con  il sorriso sulle labbra di fronte all’immagine dell’astronauta Paolo Nespoli che gusta una pizza nello spazio insieme ai suoi compagni di viaggio.

La lettura di “Cervelli affamati” mi è piaciuta, questo lo avete capito. Soprattutto mi ha sorpreso per la sua accessibilità e per la grande quantità di informazioni e correlazioni che vi ho trovato all’interno. E’ stata, come ho accennato all’inizio, un vero e proprio viaggio che, come tale, lascia in chi legge molteplici emozioni e sensazioni su cui ritornare e di cui fare tesoro.

 

Le autrici (dal sito de Il Saggiatore)

Carol Coricelli (Milano, 1987) è ricercatrice in Neuroscienze cognitive presso la Western University of London in Canada e docente presso l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo.
Sofia Erica Rossi (Milano, 1992), filosofa e neuroscienziata di formazione, si occupa di comunicazione della scienza e public engagement presso l’Ospedale San Raffaele di Milano.

 

 

 

Se siete interessati alla neurograstronomia leggete l’articolo di Maria Giusi Vaccaro

 

 

Stranieri nel Paese delle Meraviglie

– Dove corri così in fretta?
– È tardi! È tardi! – diceva, nervoso e inquieto, il Bianconiglio. Come se qualcosa d’irreparabile stesse per accadere, intorno alla tavola bellamente apparecchiata per il tè. E, nonostante la sua fretta suggerisca sensazioni moderne di frenetica quotidianità, il personaggio di Carroll è, al contrario, un richiamo d’attenzione verso ciò che accade intorno. Grazie a lui Alice, incuriosita dal ballonzolare nervoso e dal comportamento irrequieto, inizia il viaggio nel Paese delle Meraviglie, nel luogo e nello spazio delle cose piccole ma piene di significato, di tutte le esperienze che fanno diventare grandi!

E noi, invece? Dove corriamo? Cosa accadrà di così irreparabile se ci fermiamo a prendere coscienza di ciò che stiamo vivendo in quell’istante, in quel posto?
Mentre arranchiamo chissà dove, attorno alla nostra tavola apparecchiata accadono piccole meraviglie piene di significato. Se ognuno di noi seguisse il suo Bianconiglio, probabilmente, si renderebbe conto che masticare a lungo un cibo permette, attraverso il calore, la saliva e l’azione meccanica dei denti, la liberazione di molecole aromatiche che, stimolando i recettori olfattivi e quelli gustativi, permettono la percezione dei sapori.

IMG_3865Gustare il cibo non è solo un piacere, un modo di gratificarsi attraverso le scelte che facciamo a tavola, ma rappresenta una tappa importante per raggiungere la sazietà, cioè la sensazione di appagamento prodotta da una serie di messaggi chimici che, partendo da varie zone dell’apparato gastro-intestinale (bocca, stomaco, intestino), raggiungono nel cervello il centro deputato alla regolazione della fame e della sazietà. Se non ci concediamo il tempo di masticare, assaporare, apprezzare la tessitura di un cibo, il rumore che esso fa sotto i denti, la sinfonia sensoriale che ogni sua parte produce a contatto con i nostri organi di senso, perdiamo gran parte del significato che l’atto di mangiare reca con sé. Eludiamo il meccanismo dell’appagamento, non avvertiamo né il piacere del cibo né il senso della pienezza: il rischio è quello di mangiare più del dovuto, senza nemmeno la soddisfazione del gusto!

Il Bianconiglio di Carroll ne sarebbe quantomeno infastidito: sorvolerebbe con sufficienza sulle nostre manifestazioni d’ansia, guarderebbe con diffidenza il nostro frenetico ingurgitare, esprimerebbe sdegno di fronte alla cattiva abitudine di mangiare di fronte al computer o isolandoci aggeggiando col cellulare. Ci troverebbe immaturi, superficiali, inconsapevoli e alienati. Indifferenti e “stranieri”, nel senso inteso da Camus nel suo famoso romanzo, seduti a casaccio intorno a un tavolo, incapaci di gustare il cibo e la vita, divoratori inconsapevoli di alimenti e di istanti preziosi. Vogliamo davvero mangiare così? Vogliamo davvero insegnare ai nostri figli che correre è il modo giusto per arrivare alla fine di un pasto o per vivere tutto ciò che ci accade?
Dovremmo riflettere, ma soprattutto rallentare; così, ne sono certa, riusciremmo a intravedere, fra i balzi di un simpatico coniglietto bianco, il nostro personale, irrinunciabile Paese delle Meraviglie.

 

Immagine di Giusi D’Urso, testo pubblicato su manidistrega.it per la rubrica Cibus in fabula

Calorie? No, grazie, vado a molecole!

limone1Le diete, si sa, sono strettamente imparentate alle calorie. O meglio, alla restrizione calorica. La parola dieta, in genere, non ci fa venire in mente l’antica Diaita che significa stile di vita; ma suscita una sorta di fastidioso senso di rinuncia, richiama inevitabilmente il sacrificio e la privazione.
Chi si mette a dieta, dunque, riduce le calorie. Le conta e le riconta, le taglia, le identifica immediatamente sulle etichette alimentari e passa parte del proprio tempo ad imparare come distribuirle durante la giornata e come compensare ogni volta che il suo istinto, la sua gola o la sua fame lo renderanno vulnerabile di fronte alla vetrina di un pasticcere, allo scaffale di un supermercato o alla dispensa di casa. L’industria alimentare, dal canto suo, offre prodotti “calibrati” ed equilibrati dal punto vista calorico, che vantano sulle confezioni il miracoloso obiettivo del dimagrimento in salute e bellezza.
Le diete ipocaloriche, diciamolo, sono comunque un vero incubo, che peraltro ha scarse ricadute sul mantenimento del peso forma a medio e lungo termine.
A fronte di una così diffusa pratica che pone un’attenzione quasi maniacale alla quantità di cibo assunto, c’è ancora una scarsa considerazione per la qualità di ciò di cui ci nutriamo.
In realtà, ripensando alle calorie, non siamo macchine termiche ma macchine chimiche: ogni volta che mangiamo, il sangue e l’intero organismo si modificano profondamente sia dal punto di vista ormonale che metabolico. Dopo ogni atto alimentare, dunque, siamo diversi rispetto a prima di mangiare. E questo non tanto a causa delle calorie introdotte, ma delle molecole di cui è costituito il nostro cibo. Così, gli zuccheri alzeranno la glicemia del sangue e indurranno produzione di insulina, i grassi verranno portati al fegato e distribuiti nei tessuti di riserva, alle cellule per il ricambio delle loro membrane, serviranno al trasporto delle vitamine liposolubili, costituiranno nuove guaine mieliniche per i nervi; così, le proteine andranno a costituire ossa e muscoli, formeranno anticorpi, enzimi e molecole ormonali. E a seguire, tutti gli altri nutrienti, in un grande fermento metabolico variegato, interattivo e complesso che sta alla base della nostra vita e della nostra salute.
È comunemente noto che un grammo di proteine o di carboidrati forniscono entrambi circa 4 grandi calorie; ma è altrettanto nota la funzione diversa che i due principi alimentari esercitano nel nostro organismo. In sostanza, due cibi possono fornire la stessa quantità di calorie ma essere qualitativamente e funzionalmente molto diversi.
Oltre ai nutrienti, il cibo, soprattutto quello industriale, può contenere additivi che si accumulo nel corso della catena produttiva. Quello proveniente da agricoltura intensiva conterrà tracce di pesticidi, fertilizzanti, ecc. Quello proveniente da paesi lontani sarà nutrizionalmente un p’ più povero.
Quindi, tornando alla dieta e alle rinunce che essa reca con sé, forse è il caso di riflettere sul non senso di certi calcoli e certi sacrifici e di informarsi meglio sulla qualità, e quindi sulla provenienza, del nostro cibo. È il caso, allora, di porci domande quali: meglio uno snack dietetico che contiene grassi tropicali e conservanti o una fettina di pane integrale con un buon olio extra vergine d’oliva? Meglio imparare a cucinare con pochi grassi o affidarsi a piatti dietetici pronti? Meglio un centrifugato di ortaggi di stagione o il beverone dietetico di turno?
Chi non si pone queste domande continua ad illudersi che il suo peso dipenda esclusivamente dalle calorie assunte e continua a delegare ad “altri” il suo benessere personale, dimenticando che ognuno è il trainer di se stesso. Una caloria non vale l’altra e il nostro metabolismo, depositario di una sapienza genetica millenaria, lo sa benissimo!

Informazioni su sedi, orari e modalità operative dello studio nutrizionale

 

Integrazione nutri-culturale

DSCN6549I modelli alimentari e le tradizioni culinarie fanno parte del patrimonio culturale di ogni individuo, così come le sue origini e il suo linguaggio. La storia ci insegna che il cibo identifica ma, necessariamente, differenzia. In caso di emigrazione, di fatto, lo stile alimentare è l’ultimo a modificarsi, ma anche ad essere compreso e accettato.

Gli ostacoli ad una integrazione alimentare fra popoli di cultura diversa ha radici lontane e si basa fondamentalmente sulla estrema difficoltà nel cambiare i propri gusti. La cucina tradizionale, legata per definizione al territorio e alla sua storia, permea il palato, diviene omologante in quel dato contesto collettivo, rendendo in genere diffidenti, insofferenti o indifferenti nei confronti di altri sapori. Il cibo, dunque, non è facilmente trasferibile da una cultura all’altra.

Tuttavia, a mio avviso, esistono delle eccezioni, una agli antipodi dell’altra, che demoliscono barriere culturali e diventano insospettabili strumenti di integrazione.

La prima è rappresentata dal Modello Alimentare Mediterraneo (MAM), che si distingue per equilibrio e completezza, è preventivo nei confronti di malattie metaboliche e cardiovascolari ed in realtà rappresenta una cultura, un modus vivendi, che va al di là del semplice atto di nutrirsi. Esso origina dalla cultura greca e le invasioni che si sono succedute nel corso della storia hanno apportato, alle abitudini alimentari pregresse, novità e cibi insoliti che sono stati integrati nel tempo divenendo, a tutti gli effetti, parte delle nostre abitudini alimentari. Ne sono un esempio il pomodoro dall’america latina, molte spezie, introdotte dai romani con i primi viaggi in terre da conquistare, usate nel medioevo europeo per conservare i cibi, e che presto divennero quasi uno status simbol che differenziava le tavole dei ricchi da quelle dei poveri. È il modello alimentare che ci identifica, nato dalle scelte parsimoniose delle nostre campagne e teorizzato dal biologo Ancel Keys negli anni ’40 del secolo scorso. Il Mediterraneo, ovvero tutte le popolazioni che ad esso si affacciano, ha condiviso, pur nella sua eterogeneità di culture e civiltà, pur nella sua varietà di metodologie culinarie, l’importanza dell’alimentazione quale elemento strettamente connesso all’uso del territorio e all’impatto di questo uso sul paesaggio agricolo, selvatico ed urbano.

Un’altra eccezione, capace di demolire barriere culturali in modo più potente e pregnante della prima è la globalizzazione alimentare, ovvero ciò che alcuni studiosi chiamano genericamente col nome di macdonaldizzazione, volendo significare la standardizzazione estrema dei prodotti alimentari che conduce ad una ristorazione completamente integrata di un numero sempre crescente di persone. Con l’industrializzazione del settore alimentare, almeno nel mondo occidentale, si assiste ormai da diversi anni all’abbattimento di barriere culturali, superando persino la naturale diffidenza che il cibo nuovo ed “estraneo” suscita fisiologicamente. La familiarità e l’accondiscendenza che ogni cibo doveva prima meritarsi per essere considerato parte della propria alimentazione è stata soppiantata dalla fiducia incondizionata nel brand. La televisione ha fatto da passepartout, è entrata nelle nostre case e, in moltissimi casi, ha decretato il successo dei nuovi alimenti.

Abolendo e livellando differenze, grazie al basso costo e alla sua estrema palatabilità, il cibo industriale ha dato una forte spinta alla nascita di luoghi che forse potremmo definire trans-culturali, come le paninerie, i ritrovi McDonald’s, in cui le differenze fra popoli si attenuano, favorendo indubbiamente una sorta di socializzazione.

Tuttavia, il prezzo di questo tipo di integrazione è altissimo se pensiamo all’epidemia di obesità e di diabete che ormai preoccupa anche i paesi in via di sviluppo e che la scienza lega strettamente all’eccessivo consumo di alimenti ipercalorici, scadenti e poco nutrienti.

I sociologi, pertanto, stanno ancora studiando le dinamiche di ciò che il cibo, in tempo di pace e di guerra, in terre vicine e lontane, in epoche di immani cambiamenti e intense migrazioni, può determinare. A noi, in attesa di un qualche illuminante saggio da leggere, non resta che prendere atto della sua potenza e continuare a trattarlo con equilibrio e, soprattutto, col dovuto rispetto.

 

Gusti, disgusti, fame e sazietà

Quando mangiamo, in genere, non ci chiediamo quali meccanismi ci portano a scegliere un alimento e a cibarcene. Eppure, dietro un atto così frequente si cela una serie di stimoli sensoriali e di risposte neurologiche molto complessi, che caratterizzano ognuno di noi e il nostro comportamento alimentare.

Il gusto per un dato alimento è un fattore estremamente individuale, legato, oltre che al profilo genetico, ad una serie di stimoli sensoriali piacevoli (ricordi, impressioni, sensazioni, sentimenti ed emozioni) con i quali il cervello si confronta prima di scegliere un cibo. In modo speculare, il disgusto per un dato alimento deriva da esperienze e sensazioni negative legate al suo consumo che costituiscono una memoria sensoriale indissolubile. I comportamenti che ne derivano hanno avuto grande importanza nelle varie tappe delle nostra evoluzione, rappresentando, spesso, una delle poche possibilità di sopravvivere ad alimenti potenzialmente tossici.

Gustare o meno un cibo dipende, dunque, dalle sensazioni attuali e pregresse. Oggi sappiamo anche che le sensazioni più gradevoli derivano da particolari miscele di zuccheri, grassi e sale che compongono certi alimenti. Le reazioni a tali miscele, tutt’ora oggetto di studio, sono all’attenzione dell’industria alimentare ogni volta che un nuovo prodotto deve essere immesso sul mercato. Moltissimi cibi industriali, infatti, sono costruiti “a tavolino”, senza che alcun dettaglio venga lasciato al caso. Di recente, un interessante articolo pubblicato sul settimanale tedesco Der Spiegel spiega, citando l’ultimo di libro del premio Pulitzer Michael Moss, come le industrie che sfornano prodotti alimentari di largo consumo studino e progettino il cibo “emozionalmente perfetto” al fine di fidelizzare il consumatore, piuttosto che nutrirlo.

Quali sono le conseguenze di questi cibi sulla nostra salute?

La risposta è insita nel meccanismo che regola il ciclo fame-sazietà. In generale, quando le scorte energetiche sono insufficienti avvertiamo il senso della fame; mentre, quando il cibo ci ha fornito sufficiente energia ci sentiamo sazi e smettiamo di mangiare. Così descritto, il meccanismo sembra essere di una ovvietà sconcertante. In realtà, nella regolazione del ciclo fame-sazietà intervengono molti e complessi sistemi inconsci, selezionati in migliaia di anni dai processi evolutivi. Una raffinata serie di segnali metabolici, endocrini e neurologici regola il fabbisogno energetico del nostro organismo, registrando ed integrando al contempo gli stimoli provenienti dall’ambiente.

Tuttavia, oggi, l’accesso ad ogni genere di alimento, lo stress, gli stili di vita frenetici e poco sani, mettono a durissima prova il nostro istinto, l’equilibrio energetico e la chimica che li regola. Accade, così, di rifugiarsi nel cosiddetto confort food, cioè in alimenti estremamente calorici che, facendo presa sulle nostre sensazioni, le nostre nevrosi e i nostri bisogni inconsci, forniscono una soddisfazione immediata del palato, creando dipendenza e le basi per l’accumulo di peso e tutto ciò che ad esso consegue.

Ecco che i meccanismi del gusto e del disgusto, così come della fame e della sazietà, vengono destabilizzati, condizionati e spesso destrutturati dalla presenza sul mercato di prodotti estremamente appetibili, poco nutrienti e a buon mercato che agiscono come droghe sul nostro cervello, rendendoci sordi ai reali bisogni dell’organismo.

Saperlo, forse, è già cominciare a cambiare!

 

Pubblicato su Dimensione Agricoltura, luglio 2013